(Francesco Erspamer) – Il M5S è in una fase di transizione, o almeno lo spero. In particolare ha un’ideologia da costruire, visto che finora si era illuso che bastasse di volta in volta fare la cosa giusta, come se fosse empiricamente dimostrabile e dunque ovvia. Invece in politica e nella vita sociale non ci sono fatti, solo strategie e programmi dall’esito incerto e che possono essere accettati solo all’interno di un coerente e condiviso sistema di valori. Finché il Movimento non avrà definito con chiarezza il suo, ci saranno contrasti interni, magari aspri: niente di male, anzi.

Invece troppi pentastellati sono terrorizzati dalla possibilità che polemiche e dissensi, anche se costruttivi, “facciano il gioco degli avversari”: quasi che a questi servano pretesti per scatenare la loro macchina del fango mediatico. L’insicurezza di sé è catastrofica, in guerra come in politica, a maggior ragione per chi si proponga di cambiare la società: come pensa, non dico di riuscirci, ma di apparire credibile se non fa altro che analizzare le reazioni di coloro che disprezza e afferma di voler scalzare e che ovviamente resistono con ogni mezzo, anche sporco? Le picconate sono la norma, in politica; direi anzi che sono il sale della democrazia, che entra in crisi quando regnano l’uniformità e il conformismo, per esempio attraverso il maggioritario e il conseguente finto bipolarismo all’americana (la cui importazione in Italia ha avuto il desiderato effetto di sostituire all’opposizione fra ideali di sinistra e di destra un indistinto brodo qualunquista).

Il problema non sono le picconate degli avversari; il problema è che il M5S non sa rispondere con la stessa moneta: in quanto continua sciaguratamente a trascurare l’importanza della propaganda ma anche per via del mito del proprio eccezionalismo, che ancora circola fra i suoi militanti malgrado le recenti sconfitte. È un grave errore credersi un partito speciale e dunque ecumenico, e non semplicemente un partito come gli altri ma con un ottimo programma; perché si rischia di credersi unti dal Signore e dunque esentati dalla fatica della politica e dai suoi vincoli, il più importante dei quali è individuare il proprio elettorato e fare i suoi interessi. Il bene comune è l’obiettivo ma, se davvero comune, resta al di là dei singoli partiti e raggiungibile solo attraverso compromessi.

Per finire propongo una massima di Mao, in cui ho solo sostituito “politica” a “rivoluzione” per non dare alibi a chi crede che nel frattempo (attendendo la rivoluzione) possa fare politica senza sporcarsi le mani: “La politica non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità”. Un aperto confronto interno accompagnato da ferrea disciplina per affrontare con determinazione gli ostacoli esterni: sono le condizioni necessarie e sufficienti per salvare il Movimento e farlo crescere.