È dall’ Europa delle differenze che è nato il sistema degli Stati. Diversi e rivali tra loro, anche se le loro rivalità non sono mai riuscite a frantumare la nostra originaria unità culturale

(di Ernesto Galli della Loggia – corriere.it) – Che cosa è l’Europa per il cui futuro oggi e domani ci rechiamo a votare? Non parliamo per il momento di identità, termine da maneggiare sempre con cautela: parliamo semplicemente di differenze. Ancora oggi essere europeo significa infatti innanzi tutto questo: essere nato e aver passato la maggior parte della propria vita in un contesto ambientale determinato da alcune differenze rispetto a tutte le altre zone del pianeta abitate da popolazioni di origine non europea. Di questi caratteri assolutamente specifici ha fatto un elenco a suo tempo un noto storico polacco Krzysztof Pomian.

Eccoli dunque questi sette caratteri ambientali, visivi e sonori, tipici dell’ Europa: 1) la presenza di croci su alcuni edifici e nei cimiteri, ma anche lungo le vie cittadine, agli incroci o al bordo delle strade nelle campagne; 2) un particolare tipo di pianta delle città e di architettura con un gran numero di tratti comuni, per esempio una piazza centrale; 3) un alfabeto che pure presentandosi in tre varianti si distingue tanto dalla scrittura ideografica cinese che dall’alfabeto arabo e da altri alfabeti; 4) la particolare densità delle immagini negli spazi pubblici e negli interni delle abitazioni private; 5) la frequenza, tra queste immagini, di quelle che rappresentano la figura umana sia maschile che femminile; 6) il suono delle campane; 7) infine, la fitta presenza sul territorio di vestigie greche, romane o medievali, sotto forma di edifici ancora oggi in piedi ovvero di rovine o di oggetto conservati nei musei.

Solo in Europa, inoltre, s’incontrano alcuni caratteri che la distinguono rispetto alle aree culturali nostre vicine. Tutta l’Europa, ad esempio, ha una sua specifica organizzazione temporale fondata sulla settimana con la domenica come giorno festivo; e tutta quanta poi festeggia alcune ricorrenze come Natale e Pasqua. Ancora: tutti gli Europei usano richiamarsi al lascito ebraico-cristiano, all’antica Grecia e all’antica Roma, così come tutto il continente condivide la medesima tradizione delle arti visive e della letteratura, le dottrine politiche, le norme legali di fondo, l’assenza di qualunque interdetto alimentare. Oggi, infine, l’Europa si distingue vuoi per la sua laicità, che qui vuol dire separazione della politica dalla religione e della cittadinanza da qualsiasi appartenenza confessionale, vuoi per lo statuto delle donne: «le leggi europee, come osservava Pomian, non riconoscono che il matrimonio monogamico, le donne non sono chiuse in ginecei o in harem, non sono obbligate a nascondere il loro volto o i loro capelli. Ciò che più conta hanno sempre svolto un ruolo di primo piano nella vita culturale e politica».

Ma l’Europa è attraversata essa stessa da un gran numero di differenze: ad esempio tra l’Occidente latino e quello greco-ortodosso, tra l’Europa protestante e quella cattolica, tra i Paesi delle citta e dell’autogoverno municipale, delle università e delle assemblee elettive, i Paesi d’occidente protesi verso il mare, e invece nella parte orientale del continente i Paesi delle immense pianure, delle grandi foreste e delle città rare, i Paesi dei magnati e della secolare permanenza feudale.
È da una tale Europa delle differenze che è nata quell’unica e particolare creatura storica che è lo Stato, il sistema europeo degli Stati. Diversi e rivali tra di loro, certo, anche se le loro rivalità non sono mai riuscite a frantumare il collante rappresentato dall’originaria unità culturale del nostro continente, destinata proprio nell’età degli Stati ad esprimersi nello ius gentium e nell’idea dell’«equilibrio delle potenze». Mentre sempre quell’originaria unità culturale si esprimeva in un’internazionale continentale dei dotti la quale, via via rafforzatasi nel corso dei secoli, sarà protagonista di due movimenti che schiuderanno all’Europa la via della modernità: l’illuminismo e la rivoluzione scientifica. E cioè da un lato la modernità politica dei diritti naturali e della democrazia, dall’altro la modernità della rivoluzione industriale e della produzione capitalistica: insieme le nuove basi di una nuova unificazione culturale dell’Europa all’opera da 250 anni. E solo in Europa una singolare concatenazione di vicende ha condotto alla nascita dello Stato nazionale.

Lo Stato nazionale ha dato origine o comunque ha coinciso di fatto con alcune novità decisive per le nostre società. Esso ha voluto dire innanzi tutto la fine della secolare contrapposizione tra la cultura delle élites, quasi sempre di natura aristocratico-cosmopolita, tendenzialmente secolarizzata, aperta alle novità, e la cultura delle masse popolari, intrisa viceversa di localismo, di religiosità, legata alle tradizioni. Lo Stato nazionale ha rappresentato uno straordinario caso storico di incontro tra l’alto e il basso della struttura sociale, all’insegna di una nuova autoidentificazione culturale. Autoidentificazione sollecitata e resa possibile da un fattore chiave: dall’esistenza di una lingua comune e delle sue produzioni letterarie. Entrambe destinate attraverso la scuola – non a caso resa obbligatoria per la prima volta nella storia proprio da un tale Stato – a un’enorme diffusione, e quindi a dare vita, alla fine, a un demos dai tratti comuni. Tutto ciò ha prodotto un grandioso risveglio di energie ideali e materiali, una reazione a catena di conflitti, di novità istituzionali, di speranze di emancipazione, sul cui slancio ancora in gran parte tutti noi viviamo.

Anche la democrazia politica deve la sua esistenza in buona parte allo Stato nazionale. L’idea di sovranità popolare, infatti, è impensabile senza l’idea di sovranità nazionale, senza la potenzialità espansiva insita nell’idea di sovranità nazionale, che implica l’idea di cittadinanza e dal suffragio censitario conduce necessariamente a quello universale.
Lo Stato nazionale ha voluto dire la creazione per l’appunto di una larga comunità di cittadini. Cioè d’individui retti e tenuti insieme da un comune retaggio storico-culturale che ogni giorno li convince di partecipare a istituzioni comuni e a un comune destino.

Almeno da due secoli a questa parte, in misura maggiore o minore, gli europei hanno condiviso l’esperienza riassunta in quanto ho detto finora. Come non tenerne conto? La storia, il trascorrere del tempo, un enorme deposito di vissuto collettivo, hanno così dato vita a una vasta costruzione psico-emotiva, a una memoria carica di valori anche sentimentali. L’identità europea, usiamo finalmente la parola, è legata intimamente a questa lunga durata della memoria.
Il punto chiave è che questa identità, prodotto del passato, è però sentita inevitabilmente anche come un lascito che desideriamo trasmettere ai nostri successori. Ora, è precisamente questa propensione, tipica dell’identità, a proiettarsi dal passato verso il futuro, che è divenuto un fatto politico dirompente per la costruzione europea. Dal momento che questa ha preso le mosse dall’idea che invece proprio il passato europeo fosse in un certo senso morto.

Certo, nell’immediato dopoguerra era ancora plausibile pensare che sotto le macerie del conflitto fossero rimasta seppellita per sempre anche la vecchia Europa degli Stati nazionali. Ma non era così. Crederlo fu un errore. Così come a mio giudizio ha commesso un errore l’europeismo quando ha creduto che la migliore giustificazione della propria ragion d’essere consistesse nel proclamare l’inattualità e quasi la superfluità dello Stato nazionale.
In realtà la costruzione politica europea ha sofferto e soffre dell’assenza di una politica dell’identità rivolta al passato. L ’Unione non si è curata di tematizzare e valorizzare le radici comuni all’intero continente. Non ha pensato di elaborare una qualche politica che tenesse conto delle declinazioni e delle articolazioni particolari di tali radici a seconda dei Paesi, del legame di queste radici con l’oggi e con il domani. Pronta in ogni occasione a tessere l’elogio delle differenze quando riguardano gli altri, l’Europa si è in certo senso vergognata delle proprie. Ma così essa ha dimenticato che nulla di ciò che è nuovo può vivere se non è in grado di rifarsi a qualcosa di antico. L’Europa ha scelto di presentarsi con il volto sì del suo retaggio, ma del suo retaggio più universale e astratto, collocato, per così dire, fuori dal tempo e dallo spazio. Ha scelto di porre la propria identità essenzialmente nel firmamento dei princìpi – la pace, la giustizia, i diritti dell’uomo – rivolti indistintamente a tutti, e quindi per loro natura necessariamente astratti ed orientati esclusivamente al presente e al futuro.

Ma in politica bisogna saper parlare all’anima. L’Europa ha dimenticato l’ammonimento di una grande europeo, Stefan Zweig, che negli anni tra le due guerre, scriveva che se non si parla al «cuore» e al «sangue» degli europei la battaglia contro i nazionalismi sarà inevitabilmente persa dal momento — aggiungeva —che «mai nella storia il cambiamento è venuto dalla sola sfera intellettuale o dalla sola riflessione».
Invece le elite europee hanno finito per credere esattamente ciò: che per radicarsi e legittimarsi nella coscienza dei propri cittadini, bastassero i grandi principi e i vantaggi concreti assicurati dall’Unione. Ma nessun corpo politico è stato mai tenuto insieme solo da queste cose. In realtà la presenza dei passati nazionali è molto più ampia e importante di quanto le istituzioni europee non siano state fin qui disposte a credere. E dunque se qualcosa di saldo deve sorgere con il nome di Europa, se il destino riserva un tale futuro al nostro continente, allora questo non potrà che sorgere sul lascito della storia: solo in ciò esso troverà con la propria piena legittimazione anche la promessa di un compimento.