(di Marcello Veneziani) – Ci manca solo che la musica leggera entri nella Costituzione, magari insieme alla pizza, e potremo dire che l’Italia alla fine combacia perfettamente con lo stereotipo mondiale di pizza, mandolino e tanto ammore. Allora saremo finalmente all’altezza della nostra caricatura, quell’amabile macchietta con cui siamo dipinti nel mondo… 

La proposta l’ha lanciata in una conferenza stampa al ministero della cultura, Antonello Venditti, che addirittura vorrebbe essere ricordato non per le sue canzoni ma per aver fatto entrare la musica nella Costituzione, secondo un suo progetto che sta discutendo col ministero. 

La proposta è esagerata e impropria, ma il ragionamento che la sostiene non è affatto insensato o campato per aria. “Senza musica popolare contemporanea l’Italia non sarebbe il paese unito che è oggi», ha detto Venditti in conferenza. E a pensarci ha proprio ragione. Alla fine l’unico racconto collettivo, pubblico e privato, civile e sentimentale, che ci unisce nasce è là nel comune amarcord delle canzoni che regge alla prova dei quaranta, dei cinquanta, perfino dei sessant’anni di distanza.  

Facciamo un passo indietro nella nostra vita e in quella della nostra nazione, e ripartiamo dagli anni sessanta. Mina e Celentano, Modugno e Morandi, e potremmo continuare con altri nomi mitici, furono i pionieri di quella colonizzazione musicale dell’immaginario nazionale. Ebbero successo a vent’anni e lo hanno ancora oggi che hanno superato gli ottanta; ma al di là del loro personale successo, è quel racconto musicale che resta ancora in piedi e trova proseliti. Ma si rafforza, diventa addirittura sistema, con la generazione dei cantautori che prende le mosse cinquant’anni fa ed esplode in particolare tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. Attenzione anche alle date, non sono un caso: finiscono gli anni di piombo, finisce l’ultima epoca ancora pervasa dalla storia e dalla prosecuzione della guerra civile, contrassegnata dal terrorismo e dall’estremismo e prende corpo un’epoca all’epoca denominata riflusso, ritorno al privato, edonismo reaganiano, ecc. che finisce col diventare il nostro comune retaggio, paesaggio e linguaggio. Lucio Battisti, Fabrizio De André, Lucio Dalla, Mia Martini e per passare ai viventi, Francesco De Gregori, Claudio Baglioni, Antonello Venditti, Riccardo Cocciante, Vasco Rossi, e tanti altri (Mentre li cito mi dispiace non citare quello o quell’altra a cui sono affezionato). Ognuno di loro, o per sottogruppi, costituisce una specie di parrocchia musicale con i suoi proseliti; c’è la diocesi dei battistiani-mogoliani, c’è la confraternita dei deandreani, c’è la chiesa mistico-leggera dei battiatisti, e così via…

Se cerchi un mondo comune, un lessico condiviso, se vuoi superare le distanze e ritrovare comunanze, intimità, affetti comuni e risalire attraverso le esperienze di ciascuno al piccolo mondo antico di tutti, lo fai tramite loro, incrociando loro. Il tempo delle loro canzoni è la nostra età romantica. La cosa che più colpisce è che passano i decenni, nuovi fenomeni musicali raggiungono successi pazzeschi, non mancano gruppi e cantanti globali, ma alla fine l’immaginario collettivo, il giardino di casa, le memorie domestiche e nazionali che ci rendono sul serio fratelli d’Italia, sono legati a quei cantautori. Si torna a loro, nelle cuffie, a casa, in auto, ovunque; talvolta anche con un rito di rievocazione, un concerto o una messa cantata tra due o più di questi cantautori sempreverdi. Quel che impressiona è la lunga durata della memoria musicale rispetto alla velocità con cui si brucia ogni cosa. Parliamo di ultrasettantenni ormai, mentre il loro pubblico va dai loro coetanei fino a generazioni più recenti. Il loro successo è nazional-popolare, anche se difficilmente varca i confini nostrani. Sono miti italiani ma all’estero quasi tutti hanno avuto qualche turneé, qualche successo glorioso, ma non hanno sfondato in modo duraturo e vasto. Se vogliamo, hanno avuto più circolazione nel mondo Toto Cutugno e Raffaella Carrà, Albano e Laura Pausini, solo per citare alcuni.

La storia ci divide, la politica non ne parliamo, la religione arretra, la cultura sparisce, la tecnica ci isola, ciascuno dentro il suo smartphone; alla fine a unirci è la musica leggera, quel canzoniere che ci riporta a un’eterna adolescenza, una perenne gioventù, fuori dal tempo. Con quelle canzoni entriamo nel mito della nostra vita, anche gli amori si fanno grandi e indimenticabili, più di quel che sono stati poi nella realtà; alcuni balli diventano memorabili, certe atmosfere, certe risate, certi sguardi con quella colonna sonora diventano il nostro paradiso personale e collettivo al tempo stesso. 

L’unico tessuto comune che può accostarsi al regno musicale, è il cinema, e in parte la tv: la commedia italiana e i suoi memorabili protagonisti. Ma la musica è più intrusiva nella vita di ciascuno, non è solo ascoltata o vista ma vissuta in prima persona, associata a momenti reali di vita personale e di coppia; si collega a un bacio, a una serata memorabile, alla notte prima degli esami, a una maglietta fina… Un’autobiografia cantata. 

Insomma, mi pare poco serio inserire la canzone nella Costituzione del nostro Paese, che per taluni è una specie di Bibbia onnicomprensiva di tutto quel che merita attenzione e riguardo… Ma se non entra nella costituzione formale e nei suoi articoli di legge, la musica leggera entra nella costituzione reale e immateriale della nostra vita, in quell’orizzonte lieto e giocoso che vorremmo portare in salvo dalla disfatta degli anni e l’incedere della vecchiaia.

Panorama