
(Leonardo Noschese – lafionda.org) – Il 2025 ha portato profonde rotture negli argini degli equilibri mondiali. Da un lato i pesi si spostano per ragioni di declino, con le crescenti difficoltà degli Stati Uniti che al loro interno vedono divisioni sempre più nette e un comparto industriale in cronica difficoltà, dove le tensioni sociali hanno portato allo stanziamento nelle città di forze armate che, più che un rimedio ad esse, rischiano come sempre di esserne comburente. E che all’esterno portano la guerra dei dazi, tentativi di pace in Ucraina e Medio Oriente che non riescono ad attecchire e le recenti intimidazioni al Venezuela. Dall’altro lato, i pesi si spostano per ragioni di ascesa, con l’accrescimento della forza cinese grazie al controllo delle risorse e delle catene del valore critiche e con il rafforzamento dell’alleanza energetica con la Russia, in un contesto che vede gli allineamenti tendersi anche verso India e Iran, in una sempre più ampia e compatta contrapposizione all’Alleanza Atlantica. Un mondo che non solo è sempre più policentrico ma è anche, pericolosamente, sempre più polarizzato.
Al centro di questa polarizzazione vi sono il protrarsi del conflitto in Ucraina, che ha superato il milione di perdite di vite umane, e un Medio Oriente che ha visto il perdurare di un genocidio e lo sfioro di una crisi globale con la Guerra dei 12 Giorni di questo giugno. Crisi che potrebbero essere prodromiche di altre peggiori.
Molto è cambiato, e questi eventi hanno creato le condizioni per cambiamenti assai più grandi e più veloci. Perché i colpi alle fondamenta degli edifici, sebbene meno visibili all’esterno, sono quelli che possono farli crollare. In pochi istanti e in modo inarrestabile, una volta superato il punto di rottura. Gli indicatori dei cambiamenti sono molteplici. Ad esempio, la crescita economica europea, che dal 2022 è crollata divenendo sempre più debole e disomogenea, vedendo fortemente frenato il recupero successivo alla pandemia di Covid-19. Causa principale ne è stata il blocco dell’arteria energetica dei gasdotti Nord Stream, che ha costretto la Germania e l’Europa intera a una profonda riconfigurazione energetica e dei piani industriali. Oppure il crescente compattamento dei BRICS e, elemento ancora più rivelatorio, la fine imminente del trattato New Start sulle testate nucleari, sottoscritto nel 2010 fra Russia e Stati Uniti. In scadenza il 4 febbraio 2026, ha visto da parte russa la proposta di una proroga di almeno un anno a patto che la controparte americana si attenga alla stessa linea, ma niente di certo è ancora stato messo sul tavolo. Se il trattato non sarà rinnovato, la corsa al riarmo sarà anche nucleare.
Nel mezzo di tutto questo c’è la nostra Italia, parte della chiglia di un Europa che naviga in acque sempre più burrascose. Il 4 marzo 2025 la Presidente della Commissione Europea ha annunciato ufficialmente il Piano di Riarmo “ReArm Europe”, poi mutato per ragioni comunicative nel più neutro “Readiness 2030”, che prevede investimenti fino a 800 miliardi di euro con l’obiettivo di rendere il continente pronto ad un conflitto su vasta scala entro i prossimi anni. Il Piano è stato ufficialmente approvato, con 419 voti a favore, dal Parlamento Europeo il 12 marzo. Nei mesi successivi si sono moltiplicate le dichiarazioni di Capi di Stato e alti ufficiali che parlano della necessità di prepararsi ad una nuova guerra, sono stati sottoscritti ordini per decine di miliardi all’industria bellica e, con l’opposizione della sola Spagna, i Paesi Europei hanno preso l’impegno a investire enormemente nel comparto della Difesa.
La trappola della guerra, come sempre è stato, sta nella sua imprevedibilità. Non è possibile prevedere quando scoppierà, né dove, né quali conseguenze avrà. Per la semplice ragione che, una volta che hai riempito la casa di polvere da sparo, basta un fiammifero acceso per condannare tutti all’esplosione. Indipendentemente da chi quel fiammifero lo lascia cadere, o dal fatto che ciò sia avvenuto volontariamente o meno. La libertà d’azione c’è solo nella fase precedente, ovvero nel prepararne o disinnescarne le condizioni, ma una volta che l’incendio è esploso questa diventa minima. E al di là della tragedia politica e culturale che il riarmo europeo rappresenta, aprendo la strada a possibili tragedie di sangue, l’estrema incoscienza di una simile scelta è evidente in almeno tre criticità.
La prima è l’assenza di obiettivi chiari e condivisi, con un riarmo continentale che nei fatti si dirama nel riarmo di 27 nazioni, ciascuna caratterizzata da specifici interessi e specifiche procedure. Dove a stabilire quantità e qualità delle armi sono in primis i contratti d’ordine con aziende private, che sono afferenti solo ad uno o a pochi Paesi. L’elemento più decisivo è quello economico, non quello strategico-organizzativo, implicando che né la compatibilità del munizionamento né la condivisione della logistica sono garantite. Se non con la regia della NATO, che ha un impianto sempre più traballante e sempre più contestato dagli stessi USA, che sono gli unici a poterne rivendicare la leadership.
La seconda è l’assenza delle sostenibilità strutturali. L’Europa, tanto nella sua interezza quanto nelle sue singolarità nazionali, vive e prospera in quanto connettore economico del mondo. Sia verso il fronte atlantico, sia verso quello asiatico, sia verso quello africano. E sostenta la sua dipendenza energetica e tecnologica da tutti e tre. Se si arrivasse a un conflitto armato su vasta scala, perderebbe i ponti che la tengono in vita. Impiegando, ammesso che sopravviva, almeno una generazione a ricostruirli. E questo a prescindere dall’esito finale che il conflitto avrebbe.
La terza, che è la più cruciale, è l’assenza dei presupposti sociali. Con un’età media europea di 45 anni, fra il minimo irlandese dei 39,4 e il massimo italiano dei 48,7, all’indomani della chiamata alle armi chi è che si presenta al fronte? Facile scrivere proclami di guerra e ostilità sui social network o dagli scranni delle sedi istituzionali. Meno facile è immaginare cosa succederebbe a un Paese dell’Europa centrale o meridionale – per com’è composto in termini di centri abitati, energia, infrastrutture ed economia – se un solo missile balistico arrivasse a colpirne il suolo.
Nel mondo si muovono correnti contrapposte, sempre più forti, che stanno generando un vortice in grado di trascinare a sé tutte le barche del mondo. Per prime le nostre. E al punto in cui siamo, con i venti di guerra che soffiano sempre più forte, per invertire la rotta non è più sufficiente ruotare il timone. Si devono chiudere le vele e imbracciare i remi. Imprimere ciascuno il proprio impegno, tutto il proprio sforzo, per sfuggire al gorgo prima che ci catturi e ci faccia sprofondare al suo interno. Ma per farlo si deve avere una determinazione condivisa, data dalla presa di coscienza collettiva di quanto c’è davvero in gioco, dall’assumersi la responsabilità del nostro contributo, e dalla speranza che non sia già troppo tardi. Il passaggio fra l’anno appena trascorso e quello in arrivo può essere, come spesso è, un momento di introspezione. E in questo momento potremmo chiederci: perché non tutti stiamo remando per evitare il disastro? E cosa possiamo fare per andare, almeno coi nostri sforzi, contro la corrente che ci sta trascinando?
Remare ha senso solo se lo si fa insieme, ma per arrivare a questo serve dialogo e confronto onesto. Lo stesso che, a livello delle Nazioni, dovrebbero svolgere i corpi diplomatici. La cui assenza, in un momento così cruciale, rappresenta la più grande delusione e la più grande dimostrazione di inadeguatezza della classe politica europea.
Queste pagine però vogliono muovere considerazioni nei riguardi della popolazione. Dove, guardando tanto ai mezzi di informazione quanto alle tendenze comunicative della società civile, le nostre vulnerabilità emergono sempre più chiaramente. Lo scopo principale di molti confronti televisivi non è fornire elementi di consapevolezza, ma attirare spettatori. Cosa che è molto più facile se si portano argomenti divisivi che restano tali. Prova ne è che nessuno, durante il processo di confronto, mette in discussione la propria tesi o apre il proprio punto di vista. Il contratto consiste nel portare un argomento ma anche nel tenerlo, senza mai rivedere le proprie posizioni o apprendendo nuovi elementi, che dovrebbe essere l’unico vero motivo del confronto. Gli spettatori sono poi commentatori sulle piattaforme social, dove le medesime argomentazioni vengono ripetute e amplificate, rendendo ancora più rigida la polarizzazione. E oggi, con i social network e non solo, c’è un business consolidato che si alimenta (e quindi alimenta a sua volta) contrasti al posto dei confronti. Sebbene sia impossibile, sarebbe utile misurare quante volte ciascuno di noi ha cambiato idea negli ultimi anni rispetto ai temi più sensibili. Mantenere le proprie idee non di per sé sbagliato, ma lo diventa se queste non vengono mai sottoposte alla prova del confronto. E l’opinione pubblica, in tempi di riarmo, si forma su questi meccanismi e su queste abitudini.
Parallelamente, la nostra capacità di analisi si è sempre più atrofizzata, anche per l’introduzione di nuovi strumenti, potenzialmente molto utili ma concepiti in modo errato. Come riportato in un precedente articolo di due anni fa, l’utilizzo sempre più esteso dell’IA dei Large Language Models ha fatto sì che delegassimo sempre più le nostre riflessioni a un generatore di testi. È qualcosa che discende direttamente dal sistema economico in cui siamo immersi: non conta nemmeno più che la risposta sia corretta, è sufficiente che lo sembri, e che sia il più semplice, chiara e veloce possibile. In cambio di questo, abbiamo sacrificato qualcosa che è ben più importante delle singole risposte: il processo per ottenerle. È solo lì, nello sforzo della ricerca, che possiamo realmente apprendere e crescere. E il modo migliore per farlo è tramite il confronto, l’ascolto di punti di vista diversi dal nostro e la riflessione onesta.
Oggi abbiamo la possibilità di accedere facilmente a un’infinità di libri, di dati e di report; abbiamo i mezzi per comunicare con chiunque a qualunque distanza, ma la nostra comunicazione è sempre più improntata alla chiusura e la nostra capacità di analisi della realtà è sempre più indebolita. Se continuiamo a sottostare a tutto questo, che possibilità abbiamo di opporci alla propaganda dei venti di guerra?
Perché sullo sfondo di tutto questo ci sono le narrazioni. Narrazioni che indicano un nemico e spiegano l’urgenza di combatterlo. Narrazioni che dividono il mondo in bianco e nero così che sempre meno persone guardino i colori. Narrazioni che celano o minimizzano le sofferenze di interi popoli. E necessitano di porre a silenzio le voci dissonanti. Cosa resta della speranza, quando viene non solo raccontata, ma perfino accettata, una giustificazione per il massacro indiscriminato di migliaia di bambini? L’empatia è uno dei beni più preziosi che abbiamo, perché il confronto necessita di sentire l’altro. E solo per mezzo del confronto possiamo aspirare a vedere la realtà per ciò che è, scorgendone tanto i rischi quanto le soluzioni, trovando una narrazione che sia nostra. Perché, se non l’avremo, seguiremo quella imposta da qualcun altro. Anche quando ci porterà incontro al vortice.
Per questi motivi, forse la ricerca di confronti veri e di una narrazione onesta è uno dei propositi in cui più dovremmo impegnarci in questo nuovo anno. Imbracciando, insieme, i remi per opporci a questa corrente prima che sia troppo tardi.
Sta solo a noi.
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Giustissimo confrontarsi, cambiare opinione specialmente davanti all’ evidenza dei fatti, utilizzare il raziocinio e soprattutto attivare il sentimento dell’ empatia per sentire il dolore degli altri . Però tutto questo non a discapito della verità che purtroppo è la prima vittima dei conflitti. L’ umanità sembra purtroppo condannata a prescindere perché vittima dei demoni che la divorano da dentro.
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“… Perché sullo sfondo di tutto questo ci sono le narrazioni. NARRAZIONI che indicano un nemico e spiegano l’urgenza di combatterlo. NARRAZIONI che dividono il mondo in bianco e nero così che sempre meno persone guardino i colori. Narrazioni che celano o minimizzano le sofferenze di interi popoli. E necessitano di porre a silenzio le voci dissonanti. Cosa resta della speranza, quando viene non solo raccontata, ma perfino accettata, una giustificazione per il massacro indiscriminato di migliaia di bambini?”
Oggi mi sembra che tutti gli articoli tocchino le corde che sento già vibrare di mio…
Occhio, gente, la mia anima sensitiva è in allarme… e si avvicinano capodanno (ormai è qui) e gennaio, periodo in cui le mie antenne si drizzano…
Non mi piace quello che “sento”, troppe voci stanno urlando menzogne, per coprire verità che ci renderebbero liberi.
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E dire che J. Ford, nel 1949, fece dire a J. Wayne parole che qualsiasi attivista dei diritti umani degli indiani sottoscriverebbe (il film è Il massacro di F. Apache).
Più il discorso del capo Apache contro i bianchi traditori.
Adesso si stenterebbe a parlare così chiaro.
E poi c’é chi nega l’ovvio, ovvero che l’attacco all’NS è stato un attacco in realtà all’Europa, a cominciare dalla Ghermania:
Causa principale ne è stata il blocco dell’arteria energetica dei gasdotti Nord Stream, che ha costretto la Germania e l’Europa intera a una profonda riconfigurazione energetica e dei piani industriali.
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