Lo storytelling del potere meloniano si sforza di accreditare una narrazione che ha tutti i crismi di una riscrittura della realtà

Roma, la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi

(di Pier Luigi Celli – repubblica.it) – Corrono tempi strani, in cui lo storytelling del potere meloniano si sforza di accreditare una narrazione che ha tutti i crismi di una riscrittura della realtà. Come se l’urgenza di garantirsi un primato di continuità nel futuro guardi di sottecchi a ritroso, con nostalgie mal sopite, alla possibilità di riabilitare finalmente un pezzo di storia personale, passato ahimè senza gloria. Sempre più evidente è il tentativo di affermare un destino, vissuto ormai come inevitabile nei modi e nelle forme, ispirato alla voglia di cambiare la rappresentazione dei fatti del Paese (pardon, della Nazione) a misura delle proprie smisurate urgenze di rivalsa. Un universo di verità contro-fattuali orientato a costruire un nuova tessitura di pensiero. Uno schema e una trama semplificata e ossessiva di racconto che rimanda ad almeno tre caratterizzazioni identitarie, suggestive nella loro capacità di stravolgere punti di vista a lungo accreditati.

La prima è la rivalsa su quel mondo mal digerito che alla destra postmissina sembrava ruotare intorno, e avvalersi impropriamente, di ciò che passava sotto la formula magica di “egemonia culturale”. Appurato che, qualunque cosa volesse dire la suggestione del termine, la costruzione di una egemonia alternativa si presentava complessa, scivolosa e anche, per certi aspetti, foriera di più di una delusione, si è trovato il modo di supplire alla sostanza virando su una più redditizia formula operativa, ricca di ritorni quasi immediati: l’egemonia nella occupazione dei posti, culturali o meno.

Quelli disponibili, quelli liberati d’autorità, quelli dispersi anche ai livelli bassi delle organizzazioni di impresa e delle istituzioni, quelli creati generosamente ad hoc. Nella convinzione che occupare sia più semplice che meritare, stante che la semplificazione riduce i tempi e consente poi di imbrigliare le attività correlate alle posizioni attribuite. Avviando, oltretutto, un processo secondario: la propensione quasi inevitabile delle persone ad affiliarsi per “occuparsi”. Garantendosi così un controllo sull’esercizio dei meccanismi affidati e, insieme, sulla fedeltà dei beneficiati.

La seconda caratterizzazione ha a che fare con la decadenza della figura dell’avversario. A dispetto del fatto che, esauritesi le grandi spinte ideologiche, uno potesse aspettarsi esattamente il contrario, ha ripreso quota e considerazione la figura del “nemico”: qualcuno da combattere a livello personale, costi quel che costi.

Con l’avversario si discute, si negozia, ci si confronta su opinioni e scelte anche divergenti, ci si rispetta. Il nemico no, è per definizione uno da abbattere. I latini, che sapevano distinguere, chiamavano inimicus l’avversario con cui ci si confrontava; per loro il nemico era l’hostis, nei confronti del quale non c’era soluzione possibile se non l’annientamento. Non a caso poi i latini affermavano saggiamente che salus ex inimicis, nel senso che avere un avversario aiutava a rendersi conto della tenuta e della correttezza o meno delle proprie ragioni.

La terza caratterizzazione merita di essere narrata attraverso l’uso strumentale, e sostanzialmente falsificato, di un evento di poco tempo fa poi celebrato in comizi e pressioni giornalistiche. Ci si riferisce al famoso articolo del Financial Times, sbandierato come la legittimazione del nuovo ruolo dell’Italia in Europa, e di conseguenza della grandezza dei suoi condottieri. Un battage impressionante che, nell’idea del cerchio magico, avrebbe dovuto sgomberare ogni critica e officiare la presidente del Consiglio come nuova icona internazionale. Quello che si è nascosto nella costruzione dello storytelling fasullo è la sequenza che ha preceduto la grancassa.

Nella realtà i fatti sono andati così: un professore della Bocconi, firmandosi con il suo ruolo istituzionale di Dean della Sda Bocconi, manda un pezzo al quotidiano che il Financial Times colloca nella rubrica opinion, cosa che dice a sufficienza del peso con cui il giornale valuta il contributo. Il docente è un esperto di intermediari finanziari e non un macro-economista, e per di più l’articolo contiene almeno un paio di errori. Nel frattempo, peraltro, in un decreto governativo lo stesso docente viene nominato in una delle commissioni per la riforma del Testo unico della Finanza. Coincidenza curiosa!

A seguire la pubblicazione inizia il bombardamento di dichiarazioni trionfalistiche del cerchio magico meloniano su giornali e tv, fino ai toni sopra le righe della premier che, nelle sue uscite elettorali prima delle regionali in Campania e in Puglia, avalla la versione e sostiene che il Financial Times suggerisce che l’Europa copi dall’Italia. Ma non l’aveva detto il quotidiano.

Come si vede, uno storytelling assolutamente in grado di travisare la realtà. Un esempio lampante di come si apparecchiano ostinatamente gli elementi per portare mattoni a una costruzione fantasiosa delle magnifiche sorti e progressive del Paese. Come cantava non molto tempo fa un poeta norvegese, «un paese che non abbia una storia (…vera ) è destinato a morire di freddo».