Ci siamo arresi alla ineluttabilità dei conflitti permanenti. È il secolo in cui la violenza ha smesso di cercare un esito e ha acquistato una vita propria

Miliziani dello Yemen lanciano un'operazione militare in una zona montuosa nella provincia di Abyan

(Domenico Quirico – lastampa.it) – Le guerre infinite, sfinite, senza pace e senza tregua, le guerre della post diplomazia, le guerre eterne che infilano gli anni come le pietre di una collana, una dopo l’altra, malattie endemiche, le guerre che diventano silenziosamente destino: ci attaccheranno entro il… la guerra mondiale sarà tra cinque anni… È terribile lo so ma tutto ciò che vive è terribile…; le guerre in cui per fare la pace manca sempre solo un dieci per cento, dai è niente… ma dentro quel miserrimo dieci c’è tutto quello per cui si è fatta la guerra e il resto su cui pare siano tutti miracolosamente d’accordo sono solo ciacole…; le guerre underground e nello spazio, le guerre senza Blitzkrieg, senza battaglia decisiva, guerre orfane di Valmy e di Stalingrado, di eroismo decisivo, banali quotidiane sonnolente ripetitive come turni in fabbrica basta solo sostituire nel turno gli assenti (non torneranno) e riarmare i missili… e domani si riprende…; le guerre sproporzionate perché non hanno più uno scopo finale ma la cui unica misura è continuarle, le guerre senza vittoria perché nello scorrere del tempo si è dimenticato qual era lo scopo per cui erano scoppiate; le guerre dove il termometro dell’orrore e del terrore non è il numero dei morti o il valore economico delle distruzioni ma semplicemente, banalmente essere più grandi di ciò che cerca di essere più grande di esse. Le guerre in cui non serve a niente studiare o comprendere il nemico, basta odiarlo in modo terroristico, marattiano. Le guerre senza limiti perché quelle “small” costano poco e rendono poco. Le guerre dei pacifisti timidi e dei guerrafondai che arruolano contro “i pagnottisti” anche i diritti universali, le guerre in cui non si sa il numero dei morti non perché le cifre incrinino il morale del fronte interno suvvia! ma perché le vittime non hanno alcuna importanza, sono solo argomenti della propaganda…; le guerre in cui il massacro permanente diventa parte dell’armonia universale, che creano sviluppo, occupazione, danno lavoro, sviluppano invenzioni e intelligenze evviva era ora, usciamo dalla stagnazione! Le guerre in cui i chierici tradiscono ogni giorno per abitudine senza neppure un piatto di lenticchie, dove le sacrosante accuse dei papi vengono passate sotto silenzio (ah questi preti che ne sanno? ), le guerre dove non è vero che vincerà quello che resiste un minuto di più dell’altro… perché gli orologi sono stati disattivati, e dunque da dove partiamo per contare?

Sono le guerre in cui la seduzione della violenza, la lussuria dell’occhio la definiva la Bibbia, non è più necessaria per alimentarle, non le guardiamo più sono lì, uffa… Ecco le guerre su cui nascondiamo i dubbi come credenti in crisi, nella certezza che nessun altro li provi. In una specie di autismo collettivo ci sentiamo colpevoli. E per questo taciamo. E sbagliamo.

Non ci siamo accorti che le guerre si distaccavano dal fine, troppo complicato, manifestamente irraggiungibile, la punizione di Putin e la pace “giusta”, la ricolonizzazione della Ucraina senza nemmeno la palingenesi bolscevica, la distruzione di Hamas, la fine di Israele, il califfato planetario, la conquista del Sudan, il controllo dello Yemen dove ieri di nuovo i sauditi in lotta con gli Emirati hanno bombardato. E allora l’unica scappatoia possibile, l’unica strategia possibile qual è? Far acquistare alla guerra una vita propria, vita esuberante e dallo sviluppo indeterminato. In Ucraina a Gaza e altrove muoiono, ma almeno per noi il capitolo finale è rinviato a data da destinarsi. Povero Clausewitz con la sua ideuzza consolatoria: la subordinazione della guerra alla politica. Un abbaglio ottocentesco: oggi bisogna affiggere sui municipi autocratici, democratici e fanatici il motto del maledetto Ludendorff signore della guerra prussiano: «Ogni attività umana e sociale non è giustificata se non prepara la guerra». Si troverebbe a suo agio oggi in qualsiasi talk show a Est e a Ovest.

Finora la guerra era un azione incompleta e in sé contraddittoria, la necessità di tenersi pronti a vederla irrompere in una forma più radicale (guerra mondiale, guerra atomica eccetera) l’hanno spinta verso la ascensione all’estremo, alla necessità di un quotidiano rilancio ma senza mai andare fino all’ultima delle possibilità. Perché allora ci sarebbe la vittoria o la resa che segnano sempre la fine. Avete notato che nessuno con uno sforzo di sincerità chiede la resa del nemico, sempre solo paci giuste, dignitose, onorevoli… Il vocabolario per continuare sine die. Non a caso a trattare sono immobiliaristi, veri talenti non del negletto “balance of powers”, ma del buon affare. Appunto. Quale affare è più redditizio della guerra?

Benvenuti dunque nell’anno ventiduesimo del Ventunesimo secolo. In cui l’unico vero dramma è la dolorosa dispersa confusa e omeopatica resa alla ineluttabilità della guerra permanente. Questo è il secolo delle guerre in cui non potete immaginarvi un dopoguerra che vi disincagli almeno per un po’ di tempo dalla angoscia. Il dopoguerra in Palestina sarebbe una Gaza di superficie che fa le fusa a turisti a cinque stelle e un sottosuolo dove i riciclati tunnel di Hamas diventano l’Averno sommesso e invisibile in cui i palestinesi si rintanano al tramonto, terminati i loro umili lavori “en plein air’? E riuscite a immaginare un dopoguerra ucraino con Putin sempre al Cremlino, la Legione di Macron che mette caserma magari a Poltava dove Pietro il Grande macellò gli svedesi, gli ucraini che hanno un esercito di un milione di uomini e Trump che spedisce a Mosca e a Kiev le fatture per terre rare e altre primizie?