
(Geminello Preterossi – lafionda.org) – La logica sacrificale perseguita Aldo Moro: dal “deve accettare di morire” alla liquidazione dell’art. 32 II comma, causa Covid, sancito dalla Consulta. È un paradosso amaro: monumentalizzazione retorica e rimozione etico-politica vanno di pari passo. Un atteggiamento che serba quasi un accanimento sospetto, un bisogno inconscio di negare, rivelativo di un modo complessivo di vedere il rapporto con il potere: quello che si è via via affermato dopo la cesura del ’78 e il cambio di regime mascherato del ’92/’93, e che non ha nulla a che fare con l’energia della Costituente e le sue culture politiche, tantomeno con il lascito, le convinzioni profonde e la sensibilità di Moro. Anche in virtù di tale abreazione, si spiega l’adesione totale all’ideologia del vincolo esterno presuntamente salvifico e il conseguente riorientamento dei cosiddetti “poteri neutri”, già in parte dopo Moro e definitivamente dopo Maastricht. Poiché oggi prevalgono gli arcana imperii finanziari, e l’unica fede è la salus fisica (non civile), si moralizzano gli interessi dei giganti farmaceutici. Tanto si trova sempre un leguleio, un praticone dell’Amministrazione, pronto a legittimare l’illegittimabile.
Il nodo è teorico, e per coglierne certe implicazioni è utile richiamare il saggio che Habermas (esponente prototipico del pensiero liberal-progressista) ha dedicato a Il coronavirus e la protezione della vita (uscito nei Blätter für deutsche und internationale Politik nel 2021 e pubblicato in italiano dal Mulino nel 2022). Il coronavirus ha avuto un effetto disvelante: tra le tante verità sgradevoli che ha messo davanti ai nostri occhi, ha reso evidente che nel cuore dell’ordine giuridico-politico moderno è installata la possibilità dell’eccezione, ciò che i benpensanti avevano sempre negato (Habermas, la cui vita intellettuale è stata sempre inquietata da Schmitt, addirittura aveva definito il “politico” una nozione clerico-fascista). L’origine è eccezionale perché afferma politicamente il primato di un determinato bene collettivo (che sia la salute o altro non importa). Non si creda di evitare tali colonne d’Ercole con la facile distinzione tra emergenza (delimitata e vincolata a un oggetto specifico) e stato di eccezione (indeterminato e costituente): la distinzione è nitida in teoria, ma problematica nella prassi. Soprattutto, se l’emergenza si fa quotidiana e ripetuta, se si governa con e sull’emergenza permanente, viene il dubbio che stia maturando una nuova forma di eccezione: non costituente, ma semmai “destituente”, oltre che paradossalmente normalizzata, fluida.
Il fatto che Habermas punti comprensibilmente non sulla rivendicazione soggettiva, individuale, del diritto alla salute come diritto assoluto (che sarebbe distruttiva del bilanciamento tra diritti, oltre che del vincolo solidaristico), ma sulla fondazione e il mantenimento dell’ordine in quale tale, per ricavarne una giustificazione alla sospensione di determinate garanzie costituzionali, rende evidente come emergenza ed eccezione nella genealogia politica moderna siano connesse, e comunque come l’eccezione operi sullo sfondo dell’emergenza, quale orizzonte che svela l’esigenza di definire un bene collettivo stabile e in cui avviene la lotta esistenziale intorno a esso. È l’esigenza di ribadire la logica insista nella fondazione, qualora l’ordine sia minacciato, a giustificare il ricorso a una solidarietà “rafforzata”, che si sporge sulla linea pericolosa della deroga alle garanzie costituzionali. Di fatto Habermas per difendere l’emergenzialismo sanitario a questa logica accede (anche se con evidente disagio teorico). Ma non si può avere la giustificazione dell’eccezione sanitaria (accettata a priori), che sospende diritti fondamentali, e allo stesso tempo salvaguardare il primato dello Stato dei diritti, magari rispetto a quei casi in cui il ricorso alla decisione eccezionale non è gradita ideologicamente. Non solo: quel primato della salus, che presuppone la salus rei publicae, è in sé inevitabilmente decisionista ed eccezionalista. Salvo sostenere che esista una sola salus “costituzionale” valida aprioristicamente, quella sanitaria, che come un unicum consentirebbe di espungere il decisionismo e attestarsi su un’emergenza pura, come oggettività impolitica. Mentre la salus rei publicae in generale, in quanto fatto politico originario, con tutti i contenuti che può assumere, andrebbe rigettata perché ambigua e pericolosa. Un’ipotesi che non regge. In realtà, dal punto di vista teorico si torna sempre alla domanda regina: quis iudicabit? Cioè chi decide l’eccezione, chi determina la soglia oltre la quale scatta, chi la riempie di contenuto concreto? Possiamo davvero ritenere che la salus sanitaria sia in sé incontrovertibile per sua natura? Adottare tale punto di vista significherebbe affidare alla scienza medica, di fatto alle istituzioni che la amministrano (necessariamente in rapporti, più o meno opachi, con la politica che nomina e il mercato che paga), la decisione sull’emergenza (come se ciò garantisse di per sé un ambito assolutamente indiscutibile, del tutto sottratto a usi di parte e strumentali). Ma questa impostazione tecnocratica è incompatibile con una teoria democratica (tanto più “discorsiva”, come quella habermasiana). Che per legittimare lo stato di emergenza sanitario, il quale alimenta retoricamente l’autopercezione di superiorità morale di un certo “progressismo liberal” (poggiata su piedi d’argilla, ma nondimeno rivendicata con arroganza), si possa ammettere una deroga alla teoria, è una forma di ironia concettuale molto rivelativa delle opacità e delle contraddizioni interne del normativismo giuridico-morale, che si pretende immunizzato dal “politico”, ma poi lo usa e anzi se ne fa invadere eticizzandolo a buon mercato.
L’idea che la presa in carico della vulnerabilità umana (ridotta a cura dei “corpi”) possa legittimare il sacrificio della libertà e degli stessi diritti, imponendo una presunta solidarietà “forzata”, è dunque stata fatta propria anche da Habermas, la cui argomentazione può essere assunta come emblematica delle contraddizioni e dei riflessi condizionati dell’autorappresentazione liberal-progressista. È chiaro che se si vive in una comunità c’è un vincolo solidaristico da riconoscere e rispettare. Ma può essere puramente imposto, oltretutto con la discriminazione di chiunque avanzi anche solo dubbi e domande? Può essere il green pass, simbolo del ricatto sui diritti, anche di quelli relativi al lavoro e alla sussistenza, un viatico per la solidarietà? Non si dovrebbe prima ricostruire le “condizioni” di un’effettiva solidarietà, e indagare senza sconti la genealogia della sua destrutturazione? Ma sarebbe troppo imbarazzante, perciò meglio, con un salto, liberarsi di tale riflessione autocritica sulle proprie responsabilità e sulle ragioni del “populismo”, ritagliandosi così ancora una volta il ruolo di custodi della morale pubblica. Non è una scorciatoia, la presunta solidarietà sanitaria imposta con la forza? Non c’è un’ipocrisia, che nasconde da un lato paure e istanze autoprotettive egoistiche, dall’altro il senso di colpa per i cedimenti pregressi ai tagli e alle privatizzazioni del Welfare, per la separazione dagli interessi e dalle priorità dei ceti popolari, dietro lo schermo della solidarietà verso gli altri, invocata retoricamente ma usata per dividere la società ed espellere (simbolicamente, ma per la fase emergenziale anche fattualmente, usando una “legalità” illegittima) chi non si allinea? Che si sia trattato di una prova generale e un avvertimento? Non opera qui il tipico schema del “doppio standard”, che calibra diritti e regole asimmetricamente, smentendone l’universalità mentre se ne rivendica il monopolio? La morale “umanitaria” si applica agli “altri”, a chi non è disposto ad allinearsi “a prescindere”, ma non all’Occidente “liberale”. Il germe della coazione a discriminare si annida qui, in questo schema che allinea i buoni sempre da una parte, i “nemici assoluti” (dell’umanità, della solidarietà, del bene) immancabilmente dall’altra, dove si manifesta qualche resistenza. Una modalità ormai da tempo pervasiva nella proiezione internazionale del “West”, di cui l’Unione Europea è integralmente permeata, e che ha ampiamente infettato la politica domestica, riproducendo la figura del nemico “interno”, moralmente indegno, dipinto come quinta colonna, o vittima della propaganda dei nemici della società neoliberale. Interno ed esterno così si tengono. Tale “allineamento” tra pulsioni discriminatorie interne e deumanizzazione esterna fa pendant alla totalizzazione pulviscolare dell’ostilità che il globalismo ha prodotto, diffondendola ovunque. Non a caso la guerra, potenzialmente anche totale, è ormai sdoganata.
Poiché oggi prevalgono gli arcana imperii finanziari, e l’unica fede è la salus fisica (non civile), si moralizzano gli interessi dei giganti farmaceutici. Tanto si trova sempre un leguleio, un praticone dell’Amministrazione, pronto a legittimare l’illegittimabile.
Ovviamente nessuno deve osare di pensare che la Costituzione ha dei principi solidi e che c’é gente che è capace di distruggerli pur di far valere interessi di parte, no?
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