Una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca

Roma, 23 dicembre: Giorgia Meloni

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Sia lode ai Marcello Veneziani, ai Franco Cardini, ai Giordano Bruno Guerri. Finalmente, anche a destra, qualcuno scuote l’albero. Intendiamoci, parliamo di “spelacchio”, l’abetino poverello che fatica a germogliare nella tronfia rive droite dove da tre anni e mezzo riecheggiano solo i triti dettami del tardo Ventennio: la donna sola al comando, credere obbedire combattere, dio patria famiglia, il complotto dei soliti comunisti, chi non è con me è contro di me, e via delirando. Ma vivaddio, una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca.

Giorgia ha fatto un capolavoro: nel 2013 parte da via della Scrofa con un misero 1,4%, nove anni dopo entra a palazzo Chigi con il 26,6. Ma cos’è cambiato in Italia da quel trionfale 25 settembre 2022? Cos’è rimasto della grande “rivoluzione conservatrice” sognata e promessa dai nipotini di Almirante e sintetizzata nelle mitiche tesi di Trieste? In che cosa si sono tradotti la «filosofia dell’identità» e lo «spirito nazionale», la «nuova sovranità monetaria» e il «valore dei nostri giovani»? Insomma, dov’è la vera, nuova «egemonia culturale» di questa destra al potere, esaltata e appagata solo dall’averlo raggiunto?

Veneziani ha il merito di aver posto su La Verità queste domande, che nella casamatta meloniana sanno di apostasia. A un governo autocratico — che smercia qualunque patacca per «evento storico», dall’oro di Bankitalia al popolo alla cucina tricolore patrimonio dell’Unesco — non puoi rimproverare «solo vaghi annunci, tanta fuffa, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia».

A un partito-setta — che mantiene una vocazione clanica e minoritaria mentre si spaccia per «partito della Nazione» — non puoi non saper indicare «qualcosa di rilevante che dica al Paese “da qui è passata la destra, sovranista, nazionale, patriottica, popolare, conservatrice” o quello che volete voi». E agli improbabili ma irriducibili maître à penser nati a Colle Oppio e cresciuti a pane e Codreanu — che pensano di fare «egemonia gramsciana» con una mostra sul futurismo e un’opa su Pasolini — non puoi dire «sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo, tutto è rimasto come prima».

Se fai tutto questo, non sei un intellettuale onesto: sei solo un traditore o un ricattatore. Spari sul quartier generale perché speri che qualcuno ti ci faccia entrare. Questo risponde a Veneziani il competente ministro della Cultura, che lo rimprovera di nemichettismo: «Sversa su di noi la bile nera di cui trabocca il suo animo colmo di cieco rimpianto». La solita circonlocuzione barocca del divo Giuli, per dire che l’ex amico Marcello rosica perché voleva la sua poltrona al Collegio Romano.

E per il resto, vae victis!: guai a tutti quelli che sui giornali-parenti osano salire sul carro del perdente. Tipo Mario Giordano, che da spirito libero scrive «Veneziani è colpevole di non aver leccato gli stivali di Giuli. A chi il leccaculo? A noi! Anche questo in fondo è un segnale di decadimento della destra al potere…». Impossibile dargli torto.

E ancora più impossibile è dar torto a Franco Cardini, che in un’intervista a Repubblica, a proposito del lavoro culturale di FdI, parla di «encefalogramma piatto» e aggiunge «non c’è nemmeno una rivista culturale, quando hanno dei soprassalti fanno le mostre su D’Annunzio o su Tolkien, che conoscono anche i maestri di Vigevano e le casalinghe di Voghera, per dimostrare che la cultura la fanno anche loro, ma francamente è un po’ ridicolo».

Roma, 23 dicembre: la cerimonia degli auguri natalizi ai dipendenti nel cortile di palazzo Chigi

Le cose stanno esattamente così. Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia, qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La “Ducia Maior”: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I “gerarchi minori”: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone.

Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio. Riproduzione su vasta scala della paccottiglia trumpiana (Italia first e sostituzione etnica, sovversivismo dell’élite e sovranismo bianco, ateismo devoto e familismo immorale). Occupazione manu militari della Rai e del circuito-cinema, dei teatri stabili e degli enti lirici.

A rifondare la “nuova Italia” non bastano una rassegna sul Signore degli anelli o un concerto di Baglioni al Senato. Il catalogo neo-nazi di Passaggio al bosco con i testi di Mussolini e di Junio Valerio Borghese o il pantheon posticcio di Atreju con D’Annunzio e Charlie KirkCarlo Conti che dispensa primizie sanremesi o Gigi Buffon che sparge delizie sulla commander in chief.

L’unica ossessione della destra è il nemico a sinistra. E la sua unica missione è la purga che ne cancella gli “idoli”. Perché solo questo di tanta speme oggi le resta: l’occhiuta sorveglianza di Giampaolo Rossi a Viale Mazzini, la cieca resistenza di Beatrice Venezi alla Fenice. E come ricorda Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, già nel 2020 Veneziani dettava a Panorama la sua profezia: «Oltre a Giorgia, cosa c’è di notevole nel suo partito? C’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati?». Per poi concludere: «La sinistra ha un’idea dell’egemonia, e sa come praticarla. La destra ha solo un’idea militare». Era vero allora, pare ancora più vero oggi.

Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti. Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile.

Meloni e i suoi Fratelli possono fare o dire qualunque nefandezza ma nessuno attizza mai un po’ di sano “fuoco amico”. E se uno solo osa, come Veneziani, fa subito scandalo. Persino Giuliano Ferrara si adonta, deprecando il “nannimorettismo” a destra. Rimane da sciogliere solo l’ultimo dubbio sul senso del j’accuse.

Qual è la vera colpa, nella mancata trasformazione del Paese? Quella di non aver compiuto la vera svolta “centrista e governista” (creando una forza europeista e non “occidentalista”, repubblicana e riformatrice, costituzionale e liberale)? Oppure è quella di aver dismesso la postura “estremista e radicale” degli anni ruggenti (rinunciando alla rottura con l’Europa, agli spot contro le accise dal benzinaio e agli strilli sui blocchi navali nei salotti tv)?

Se è la prima — come ci sarebbe ancora bisogno, a dispetto della falsa Belle époque del Cavaliere — allora è giusto contestare Meloni e pretendere un’operazione-verità. Se è la seconda — come purtroppo suggerisce lo spirito del tempo, da Trump a Milei, da Orbán a Netanyahu — allora è meglio tenersi la Meloni di oggi. Piagata dall’ambiguità, piegata dalla realtà.