Il 2025 chiude senza recessione: oro e Borse ai massimi, spread in calo e Pil italiano atteso allo 0,7% secondo Prometeia. Ma con il Pnrr al termine, debito globale record, tensioni commerciali e il rischio di una bolla tech, l’economia resta sospesa tra fiducia e fragilità

Mercati incantesimo

(di Ferruccio de Bortoli – corriere.it) – L’investimento migliore del 2025 è stato l’oro. E questo dice molto del mondo in cui viviamo e delle sue infinite contraddizioni. Il “relitto barbarico” ha vinto il campionato delle asset class nell’anno in cui le più sofisticate criptovalute e le stablecoin hanno raggiunto, grazie anche a Trump, la loro sacralità ufficiale. Il metallo giallo è stato il re indiscusso dell’anno più tecnologico di sempre! 
dazi non sono stati il flagello che temevamo. Non hanno, almeno finora, causato i danni che molti avevano previsto. Anzi, è cambiata in fretta la mappa del commercio mondiale. I Paesi esportatori (la Cina soprattutto ma anche l’Italia) sono stati spinti a scoprire nuovi mercati. Le paure primaverili di una recessione si sono rivelate un filo esagerate. Secondo l’ultima, in ordine di tempo, delle previsioni dei centri studi, ovvero quella della bolognese Prometeiala crescita mondiale del 2025 si collocherà intorno al 3,1%, mentre è atteso un rallentamento al 2,6% nel 2026.

Risultati stupefacenti

Le Borse festeggiano intorno ai massimi. Nel suo piccolo Piazza Affari è salita di oltre il 30% confermandosi tra le migliori in Europa (ma Madrid ha superato il 40). 
Il debito mondiale è anch’esso ai più alti livelli di sempre (dieci punti percentuali sopra il 2019, il periodo pre Covid) ma non produce, almeno per ora, particolari turbamenti. La Federal Reserve ha ridotto i tassi americani al 3,5% e il successore di Jerome Powell li taglierà di più. La Banca centrale europea, che si appresta a lanciare l’euro digitale, è ferma al 2%. Non sembra però intenzionata a ridurli ancora. Christine Lagarde vede una crescita dell’area euro a fine anno più alta: all’1,4% anziché l’1,2. Anche questo dato era del tutto inatteso. 

L’augurio

Dunque, che cosa potremmo augurarci per il 2026 se non una ripetizione di quello che è accaduto nell’anno che sta finendo? Ovvero: non rompete l’incantesimo finanziario che ha aspetti persino miracolosi! Ma è proprio questo il problema, l’incubo che turba i sonni — comunque dorati — degli gnomi di tutto il mondo. Tutto sembra un po’ esagerato, se non gonfiato. Ed essendo, almeno nelle quotazioni azionarie, la conseguenza degli enormi investimenti nell’Intelligenza artificiale (Ai), ci si chiede quanto ci sia, in tutto quello che sta accadendo, di intelligente e quanto, al contrario, di artificiale.

Il punto di domanda

Questo è il grande interrogativo di fine anno. Ovviamente — non siamo cinici — limitiamo lo sguardo alla sola economia. Per il resto ci sforziamo di credere che il prossimo anno sia di pace e coincida con la fine della guerra in Ucraina e in Medio Oriente. E non la tragica ripetizione del 2025. E, per quanto attiene al nostro Paese, riveli una crescita meno asfittica e rinunciataria. La previsione di Prometeia, per l’anno che si conclude, è di un aumento del Prodotto interno lordo (Pil) dello 0,6%. Con una previsione dello 0,7% per il prossimo anno. 
Nel 2026 terminerà il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), senza il quale probabilmente saremmo in recessione. Scopriremo quanto avrà (poco purtroppo) aumentato il nostro prodotto potenziale, la nostra capacità di crescere. Non siamo preparati a discutere su come sostituire quella massa di investimenti che ha coperto, per un po’, le fragilità storiche del nostro Paese. Ci siamo lasciati inebriare — ed era del tutto comprensibile — dagli effetti della stabilità politica che ha ridotto lo spread ai minimi ottenendo la promozione delle agenzie di rating. Nell’ultima parte dell’anno, l’ottimismo sull’andamento dell’economia mondiale è cresciuto. I dati di congiuntura internazionale del terzo trimestre — nonostante i ritardi statistici causati dallo shutdown americano — sono stati migliori del previsto.

Europa tra Cina e Usa

Non vi sono particolari tensioni sulle materie prime, a parte il rame, al netto della disputa su quelle rare. Il prezzo del petrolio è addirittura in calo. E ciò vale anche per quelle agricole, con l’eccezione di cacao e caffé. Prometeia però è cauta e non sottovaluta alcuni rischi sistemici. Non ritiene — ed è questa, in sintesi, l’analisi di Lorenzo Forni — che l’effetto delle tariffe si sia ormai esaurito, ricadrà su molti prezzi al consumo americani. Teme che le tensioni commerciali possano trasferirsi ai servizi finanziari. Non crede però alla narrativa sul declino della centralità del dollaro nel sistema internazionale dei pagamenti.
Intravvede un’ulteriore criticità nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa sul trattamento delle stablecoin che aiutano peraltro, con il collaterale di titoli di Stato americani, la sostenibilità del debito federale e aumentano la domanda di dollari. Il mercato unico europeo sarà sempre di più, come conseguenza diretta della contrapposizione tra Washington e Pechino, il bacino di sfogo della sovrapproduzione cinese. E questo porrà Bruxelles davanti a scelte, anche politicamente impegnative, nel tentativo di frenare alcune vendite cinesi in dumping.

Bolla sì o bolla no?

Prometeia mette in rilievo un particolare significativo. I prezzi alla produzione di Pechino sono stati tenuti bassi anche dal supersconto che ha ottenuto da Mosca sugli acquisti di petrolio e gas sotto embargo dell’Occidente. L’invasione del made in China è un danno collaterale che gli europei sopportano per il loro sostegno a Kiev. E anche la dimostrazione tangibile che le sanzioni sono state in larga parte aggirate. Rimane aperto l’interrogativo più suggestivo e angoscioso del 2026 ed è quello che riguarda il rischio di una bolla dell’Intelligenza artificiale. Il boom della Borsa ha accresciuto l’effetto ricchezza e sostenuto i consumi delle famiglie americane. La loro preferenza per gli investimenti azionari è fortemente aumentata in questi anni. La dipendenza dei patrimoni familiari dagli indici azionari è oggi complessivamente del 60%. Era del 47% nel 1995. Ma con enormi sperequazioni. Il 10% delle famiglie americane più ricche — si legge nel rapporto Prometeia — detiene 118 trilioni di attività finanziarie lorde. «Un eventuale scoppio della bolla finanziaria dovrebbe interessare soprattutto le classi più ricche con effetti limitati per le classi meno abbienti, a parità di altre condizioni, ma poichè le classi più ricche contribuiscono per più del cinquanta per cento alla spesa complessiva delle famiglie, gli effetti negativi potrebbero essere rilevanti per l’intera economia». La morale è una sola, beffarda: la concentrazione della ricchezza è così forte e diseguale da pesare alla fine su tutti, anche sui più deboli. Meglio non pensarci.