Mai avevamo assistito a una legge di bilancio tanto insensata e sconclusionata, dove l’unica certezza è la totale incertezza

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Dagli ultimi governi Andreotti di fine anni ’80, non so più quante volte su Repubblica abbiamo fatto titoli come “caos sulla manovra”. È ormai un genere giornalistico, che riflette tuttavia un vizio politico: con la legge di bilancio governi e coalizioni smerciano promesse e spargono prebende, assaltano diligenze e sfasciano maggioranze. Ma un disordine cognitivo e organizzativo simile a quello dei patrioti oggi al comando non si era visto forse neanche ai tempi dell’armata grillo-leghista del 2018.
Mai avevamo assistito a una Finanziaria tanto insensata e sconclusionata, dove l’unica certezza è la totale incertezza. Delle misure e delle coperture, dei benefici e dei sacrifici. Tutto cambia di ora in ora. Come se i testi li avesse scritti un Trump de’ noantri, burlone e forse pure ubriaco. In meno di due mesi la legge è stata fatta, disfatta, rifatta. E, se possibile, sempre peggiorata. All’origine era una povera cosa. La manovra più modesta e mediocre degli ultimi 11 anni.
Circa 18 miliardi di mancette sparse, tra sconticini Irpef più vantaggiosi per i redditi alti (408 euro ai dirigenti, 23 agli operai) e spiccioli alla sanità (6,4% sul Pil, valori fermi al pre-Covid). Il tutto, naturalmente, condito dal ventiduesimo condono della legislatura. Nel complesso, un pannicello tiepido. Concepito per il puro galleggiamento, in virtù del suo unico pregio: il rispetto dei saldi contabili. Nelle ultime tre settimane, contrordine camerati: quasi un quarto della legge viene rottamata, e al suo posto gli sgangherati think tank delle destre sfornano emendamenti così demenziali che neanche la nazi-combriccola di Animal House.
Il tutto nel rituale silenzio di Giorgia Meloni, che dopo la comparsata in Consiglio dei ministri e il consueto comiziaccio ad Atreju, ha lasciato all’apposito Giorgetti la sfigatissima carta della pagoda in una mano, il rituale cerino nell’altra. E lui si è voluttuosamente immolato, gettando oltre l’ostacolo non solo il cuore ma pure il cervello. Nella confusione generale, non si sa più chi sia il colpevole: il ministro, l’ignota “manina” sempre presente nelle segrete di Via XX Settembre, o il solito maggiordomo? Nel maxiemendamento da quasi 4 miliardi, messo a punto dal Mef, c’erano i sostegni promessi alle imprese. Ma poi si era aggiunto un clamoroso e sanguinoso grand guignol sui “pensionandi”, tra abbattimento nei riscatti delle lauree, allungamento delle finestre mobili e cambiamento nelle regole della previdenza complementare.
Troppo, per l’eterno Fregoli padano, uso a ogni cortocircuito logico e ideologico, dai porti chiusi al Ponte sullo Stretto: Salvini strilla da quindici anni “cancelliamo la legge Fornero”, inscenando odiosi cortei sotto casa dell’ex ministra o impapocchiando fumosi feticci tipo “quota 100”, e ora non può sottoscrivere un altro giro di vite sulla previdenza. Quindi, previo vertice d’urgenza a palazzo Chigi, ancora una volta è contrordine camerati: salvi gli articoli su Zes e transizione 4.0, il resto del maxiemendamento è stralciato e dirottato in un decreto che ci allieterà il Capodanno. Per molto meno, nella Prima Repubblica, cadevano i penta-partiti.
Non sappiamo se per questo pasticcio il governo abbia rischiato davvero la crisi, come nel ruggente 1994 di Berlusconi e Bossi. Ma sappiamo bene tre cose. La prima: un ministro del Tesoro sconfessato urbi et orbi dal suo partito non se la può cavare fischiettando. La seconda: non si fa cassa sui poveri cristi, infilando l’ennesima stangata pensionistica in una modifica imposta al Parlamento in zona Cesarini. La terza: ha ragione da vendere proprio Elsa Fornero, quando dice a questo giornale che la realtà vince sulla propaganda.
Che “una controriforma della mia riforma non si può fare” per i numeri della demografia e dell’economia. Che con un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa e i salari reali che non crescono da 25 anni il sistema non può reggere. Che invece dell’allungamento subdolo delle finestre mobili un governo serio dovrebbe avere semmai il coraggio di intervenire alla luce del sole sui requisiti della pensione, assumendosene la responsabilità di fronte ai cittadini-elettori.
Come se non bastasse, la tragicommedia meloniana sulla manovra degenera in farsa col disegno di legge sui condomini. Cercare la “ratio della norma” nella proposta avanzata da uno sparuto drappello di onorevoli scappati di casa da Via della Scrofa non è impossibile: è inutile. Far pagare a tutti i condòmini in regola i conti sospesi di quelli morosi è come premiare chi ruba. Esigere solo pagamenti digitali, mentre con un altro emendamento alla manovra si proponeva di aumentare da 5 a 10 mila euro il tetto all’uso del contante, è un assurdo testacoda.
Pretendere che gli amministratori possiedano una laurea, nel Belpaese in cui la presidente del Consiglio ha un diploma di istituto tecnico-linguistico, non è un invito alla competenza, ma un inno all’incoerenza. Pare che anche di questo obbrobrio giuridico non si faccia più nulla, vista l’ira funesta che ha suscitato nella Sorella d’Italia. Ma resta la pena per un partito convinto di “fare la Storia”, eppure affollato da cotanti arruffapopolo e dilettanti allo sbaraglio. E poi delle due l’una: o la premier è informata delle mattane che combinano i suoi sprovveduti scherani, e allora è complice, oppure non ne sa niente, e allora è incapace.
Stralciato tutto, al fondo di questa Melonomics alla vaccinara l’ultima cosa che “brilla” davvero è solo un’altra patacca: l’oro alla Patria. È l’unico emendamento che non a caso mette d’accordo Colle Oppio e Carroccio, perché non è solo inutile ma addirittura grottesco. Non si possono sfilare le 2.450 tonnellate di riserve auree a Bankitalia, perché come sanno anche i bambini del bosco è vietato dai trattati europei.
Però i due sovranisti all’acqua pazza Malan e Borghi si spezzano ma non si piegano, come Mussolini all’epoca di “quota 90”: a loro basta che da qualche parte sia scritto “l’oro della Banca d’Italia appartiene al popolo italiano”. Non serve a niente, non cambia niente. Ma “l’onore è salvo”. E poi, com’è noto, per non perdere la dignità basta non averla. Quello che serve all’Italia lo vediamo ogni giorno.
Nel 2026 il Paese sarà in stagnazione, schiacciato tra l’aumento dei dazi e l’esaurimento del Pnrr. Quasi tutto crescerà dello zerovirgola: Pil e consumi, export e investimenti. In compenso, voleranno tasse e carrello della spesa, mentre caleranno ancora potere d’acquisto e produzione industriale. Meloni fa festa col rating, e noi con lei. Ma come dimostrano i suoi svarioni su spread e pressione fiscale, sa poco o niente di economia. E finge di non sapere che un buon differenziale tra Bund e Btp non basta a sostenere il reddito di 6 milioni di poveri e di 2,5 milioni di lavoratori precari, o a dare una buona sanità a 5 milioni di italiani che non si curano più e aspettano 360 giorni per una Tac al torace, 540 per una risonanza magnetica all’encefalo, 720 per una colonscopia. Servono riforme vere, dal fisco al welfare, dal lavoro alla concorrenza. Ma Giorgia e i suoi Fratelli regalano solo “pacchi”. E maldestri come sono, tassano pure quelli.
Non metto in dubbio le cose che scrivi ma il fatto che tu creda a quello che scrivi. A partire dall’ ordine di priorità. Naturalmente mi riferisco al bene primario, cioè il nostro paese.
Ecco chi e cosa intendo dire
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