(di Michele Serra – repubblica.it) – Da utente affezionato, anche se non sempre soddisfatto, di Trenitalia, confesso il mio divertito sgomento per la campagna pubblicitaria che inonda palinsesti e stazioni e si fonda sul concetto “l’emozione di essere italiani”, in un tripudio di tricolore, con l’inevitabile colonna sonora di Bocelli (ideona!) e con questo incipit dello speaker: “Siamo un popolo di ferro”. In attesa di un Frecciarossa in ritardo, viene da commentare: è il binario che traccia il solco, ma è l’orario che lo difende.

L’impressione è che il fervore nazionalista dello spot voglia inserirsi nella lotta per l’egemonia culturale in corso, senza avversari disposti a partecipare, per mano del governo sovranista e del suo pittoresco think tank. Pazienza, ormai ci stiamo abituando. Peccato che la parola “emozione”, tra le più abusate sui social e sui media più andanti – se ci si emozionasse un po’ di meno e si ragionasse un po’ di più staremmo tutti meglio – di fatto impoverisca l’invocato sentimento nazionale, annegandolo nella melassa (che fa arrugginire in pochi secondi il ferro).

Essere italiani non è “un’emozione”, è una condizione complicata. Per qualche verso privilegiata (ho appena visitato, a Palazzo Strozzi, la mostra del Beato Angelico), per qualche verso avvilente (gli stipendi miseri, la fuga all’estero dei giovani). È ragione di orgoglio, per quanto non si abbia alcun merito nell’essere nati qui piuttosto che in Papuasia; ma anche ragione di angoscia per lo stato del Paese, decisamente non brillante nonostante gli squilli di tromba e Bocelli. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di retorica.