I primi furono Orlando e Cacciari. Poi arrivarono Renzi e Veltroni, Sala e Decaro. Fino all’assessore Onorato. Tutti quelli che ci hanno provato, e non ci sono riusciti

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – Non per il gusto di fare il guastafeste, ma con la convinzione che su certe cose è sempre meglio andarci piano, è bene dire che l’idea di un partito dei sindaci si ripropone nella vita pubblica italiana con una tale frequenza da destare la più ampia quantità di dubbi, sospetti e maliziose considerazioni. Se poi alla ciclica e ormai trentennale riemersione si accompagna, com’è nel caso dell’iniziativa del civico Alessandro Onorato, assessore ai Grandi Eventi di Roma, non solo la duplice benedizione del sindaco della capitale Gualtieri e della sindaca di Genova Silvia Salis, ma anche l’individuazione di un goloso potenziale elettorale del 10 per cento, ecco, lo scetticismo senz’altro cresce e a tal proposito basterà ricordare che alla fine del secolo scorso la quota del preteso giacimento di voti a disposizione di un eventuale partito dei sindaci si aggirava intorno al 40 per cento. Ma erano solo chiacchiere e sondaggi viziati da irrimediabile ottimismo.

Era il Tempo Nuovo, primissimi anni 90, di Leoluca Orlando e della Primavera di Palermo, di Rutelli a Roma, di Cacciari a Venezia, di Bassolino a Napoli, di Bianco a Catania: tutti giovani, alcuni anche belli, nel complesso intelligenti, indipendenti, positivi, progressisti, venivano bene in tv e non rubavano. Si può aggiungere che a quei tempi fecero anche bene alle loro città, barcamenandosi tra risanamento amministrativo e politiche simboliche, rilancio municipale ed eventi di poco costo ma di alto impatto attrattivo, fra cui moltissime feste. Però a questo si limitò, caso per caso, la loro stagione.Per cui ritornando al presente, più che un partito, sembrerebbe questo un ri-partito dei sindaci, un fenomeno carsico, una fantasia ricorrente, un’esigenza resa plausibile da complesse motivazioni che riguardano la fine dei partiti, la rovina del sistema politico, in particolare l’ormai consolidata e desolante crisi esistenziale della sinistra.Ma ciò che qui forse importa è che quando da noi una cosa si ripresenta e si ripresenta e ancora si ripresenta senza che mai una volta si traduca in qualcosa di reale, l’immaginazione si sente autorizzata a sganciarsi dalla realtà. E se pure nel frattempo l’idea seguita a fermentare nel pentolone dell’immaginario politico, e le speranze della sinistra continuano a crescere in quel senso con retoriche auto-salvifiche tipo “ripartiamo dalle città” eccetera, è pur vero che già ora i possibili promotori Gualtieri, Salis, Onorato e quanti altri nutrono quel genere di ambizione hanno da sbrigare i loro affari municipali, che bastano e avanzano, con il che dall’agenda politica questo benedetto partito o ripartito dei sindaci prima o poi – più prima che poi – è destinato a scomparire.

Nella recente storia politica repubblicana è accaduto troppe volte, con tre diverse generazioni di sindaci, come si è detto anche onesti e capaci; e per quanto la circostanza aggiuntiva abbia il minimo rilievo, vorrà pur dire che per quattro volte almeno nell’arco di un decennio l’autore di questo articolo si è esercitato sul tema, e sempre a partire dal nesso che sciaguratamente tiene assieme illusione & delusione in un unico, prolungato e fantasmatico tricche-tracche. Si tratta, oltretutto, di storie piuttosto frammentate e non proprio avvincenti. Per quel che riguarda il primo flop, basterà qui ricordare che il generico tentativo di mettere assieme i sindaci del maggioritario in una embrionale coalizione che si chiamava Cento Città, venne stroncata da una battutaccia di Giuliano Amato che la ribattezzò “cento Padelle”. Di lì a poco, d’altra parte, sarebbe arrivato Berlusconi a spegnere qualsiasi residua velleità.A ripensarci, nel designare quell’ipotesi «un accampamento di cacicchi», Massimo D’Alema fu ancora più severo, ma a suo modo preveggente. Della seconda generazione di sindaci facevano parte – grosso modo – De Luca (Salerno), Emiliano (Bari), Veltroni (Roma), Pisapia (Milano), Chiamparino (Torino), Merola (Bologna), Falcomatà (Reggio Calabria), De Magistris (Napoli), Domenici (Firenze), Renzi (Firenze), il più sindaco dei presidenti del Consiglio. Tutti o quasi, va detto, sapevano fare il loro mestiere. Ma tra caudilli, sceriffi, masanielli, rottamatori, santoni, arancioni e aspiranti pontefici, la varietà di personalità e posizioni era tale da scoraggiare qualsiasi forma di raggruppamento.In buona sostanza, nel nuovo secolo, i sindaci di sinistra vincevano anche bene nelle loro città, ma la sinistra nel suo complesso stentava, mentre più in generale la dissoluzione del ceto politico si approfondiva schermandosi dietro un perenne chiacchiericcio fatto di fantasticherie, millanterie, miraggi e chimere. Con il che ci si avvicina alla terza evanescente evocazione del partito dei sindaci con Sala a Milano, Gori a Bergamo, Decaro a Bari, Nardella a Firenze, Ricci a Pesaro e l’ex cinque stelle Pizzarotti a Parma, cui si deve la breve e caduca esperienza di un ennesimo cartello inter-municipale, L’Italia in Comune. Ma anche qui a trionfare è il più classico nulla di fatto.Con tali precedenti, la Rete civica di Onorato, nipote di Michele Placido, non parte avvantaggiata, ma l’impegno è preso. E se la stella di Salis, già campionessa di lancio del martello, comincia a rifulgere combinando feste glamour e cortei operai, la popolarità di Gualtieri, sindaco chitarrista, pare oltrepassare i confini della sinistra. Però, di nuovo: crederci è bene, ma prepararsi al peggio è come minimo un tributo alla memoria.
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è la lince di rignano!
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PFF (Partito Forza Fr3gna) 😀
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