Unione europea, il ricatto del diritto di veto

(di Milena Gabanelli e Mara Gergolet – corriere.it) – Se l’Europa ha deciso così lentamente sull’Ucraina e su Gaza, o non ha deciso affatto, è perché chiunque dei 27 può dire «dissento», mettendo il veto. E bloccare completamente i lavori. Tanto più ora che ad Est si allargano i Paesi filorussi. È il meccanismo dell’unanimità. Nato con intenti nobili, per garantire i singoli Paesi che «nulla sarà fatto contro di voi», è stato poi sostituito in tanti settori dal voto a maggioranza qualificata. Si applica però ancora in politica estera e di sicurezza; adesione alla Ue; fisco; finanze comunitarie; cittadinanza. E su temi minori. Ma per capire l’impatto e il potere dell’unanimità — o del veto — è utile focalizzarsi sugli anni della guerra in Ucraina.

Ungheria, il serial player del veto

Non esiste un registro ufficiale dei veti europei. Tuttavia, Eu Veto Tracker di Michael Ovádek li cataloga dal 2011 in base a notizie verificate. Da allora ce ne sono stati 46L’Ungheria è la più attiva: 19 in totale. Con una vera accelerazione dopo l’invasione russa dell’Ucraina: tra il 2022 e il 2025 per ben 12 volte il premier Orbán ha tenuto tutti in scacco. Vediamone i veti più dirimenti. 
Maggio 2022Budapest blocca l’embargo al petrolio russo; per levarlo, otterrà l’esenzione per l’oleodotto Druzhba.
Dicembre 2022veto ungherese sui 18 miliardi di aiuti macro-finanziari a Kiev; viene tolto dopo un compromesso sui fondi Ue bloccati a Budapest.
Novembre/dicembre 2023veto sull’Ukraine Facility da 50 miliardi; si parla apertamente di ricatto in cambio dello sblocco dei fondi di coesione; Orbán cede nel febbraio 2024.
2024blocco o minaccia di veto sul riutilizzo dei profitti dagli asset russi; ispirerà soluzioni alternative ai funzionari Ue per neutralizzarlo.
Gennaio 2025bloccata la censura alla Bielorussia per violazione dei diritti umani.
Marzo 2025nuovo veto sugli aiuti all’Ucraina.
Giugno 2025blocco con la Slovacchia del 18° pacchetto di sanzioni contro la Russia.
Settembre 2025stop all’avvio dei negoziati con Kiev per l’ingresso nella Ue.
Dicembre 2025: nella partita per usare gli asset russi fermi in Belgio, Orbán ha già fatto sapere che – dovessero essere garantiti con gli Eurobond — lo impedirà con il veto.

L’alleato slovacco

Dall’autunno 2023 Orbán ha un nuovo alleato: il filorusso Robert Fico che ha vinto le elezioni in Slovacchia. Ora i veti si combinano: la Slovacchia ha affiancato l’Ungheria due volte nei «no» alla Ue. Come scrive il think tank tedesco SWP, siamo di fronte a una vera e propria «strategia del veto», a cui l’Ungheria ricorre in modo seriale e dove la Slovacchia è il junior partner. Ma è importante comprendere il meccanismo: il veto talvolta viene tolto per ottenere il via libera ai fondi di coesione, che l’Europa blocca perché Budapest viola lo Stato di diritto (attualmente, sono fermi 18 miliardi). Altre volte per incassare vantaggi politici e economici da rivendersi in casa. Si tratta insomma di una «contrattazione istituzionale» — Stato di diritto contro deroghe nazionali —, imperniata su un ostruzionismo strutturale.  In parole povere, non è altro che uno strumento di ricatto che va a vantaggio dell’aggressore russo.

I veti degli altri

Dal 2011, sono 15 i Paesi che hanno fatto il ricorso al veto. Fece clamore nel 2018 il veto alla condanna del trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, da parte di Repubblica Ceca, Romania e Ungheria. Ma anticipò divisioni future.
Nel 2020 Cipro si oppose alle sanzioni al regime bielorusso (finché non ottenne un segnale anti-Turchia). Nel 2017 la Grecia affossò una censura alla Cina sui diritti umani: voleva difendere le proprie relazioni economiche con Pechino. La logica di fondo mostra come spesso i «no» si usano a vantaggio di avversari europei come Russia e Cina. Per essere poi tolti di fronte di incentivi economici.
Interessante il caso polacco. In passato, Varsavia è stato il secondo utilizzatore di veti dopo l’Ungheria (7 contro 19). Con l’arrivo del premier europeista Donald Tusk nel 2022, la Polonia è diventata un partner affidabile a Bruxelles. Inoltre, vista la propria storia di invasioni e il diffuso sentimento antirusso, è una naturale sostenitrice di Kiev. Sperando che il presidente sovranista Karol Nawrocki, eletto a giugno, non scombini le carte. Però nell’Est europeo — dove le forze sovraniste e anti-Ue sono state sia sconfitte (Polonia) che capaci di risorgere (Slovacchia) —, con democrazie più mobili che nell’Ungheria orbaniana, un nuovo governo può radicalmente cambiare i giochi a Bruxelles. Come si comporterà Andrej Babis, il miliardario anti-euro populista filorusso, appena nominato premier ceco? Finora Praga è stata un forte e creativo alleato di Kiev: ha perfino guidato una cordata in grado di procurare un milione di munizioni, quando l’Ucraina restò quasi a secco. Con Babis è alta la probabilità che la Repubblica ceca faccia fronte comune con Ungheria Slovacchia. Parliamo di 3 Paesi che in totale sommano poco più di 25 milioni di abitanti, ma in grado di mettere in fuori gioco la Ue su molti fronti.

I più grandi profittatori

Gli utilizzatori seriali del veto sono tra i maggiori beneficiari del trasferimento dei fondi della UeL’Ungheria ha ricevuto dalla Ue tra il 2004-2023 la bellezza di 68 miliardi di euro netti, che secondo le stime della Commissione hanno fatto crescere il Pil quasi del 2% all’anno. Inoltre, nel periodo 2021-27 le sono destinati 21,7 miliardi di fondi di coesione e 5,8 di sovvenzioni. Il tutto, ovviamente senza contare l’effetto traino sull’economia.
In rapporto alla popolazione la Slovacchia è  il secondo maggior «beneficiario netto» dell’Unione: ha ottenuto 24 miliardi netti tra il 2004 e il 2023, con un impatto, si stima, sul Pil del 3% annuo. La Repubblica ceca (2004-2024) ha incassato un trilione di corone, ossia 40 miliardi di euro. La Polonia, che ha ottenuto un trasferimento per 250 miliardi, ha un saldo netto negli stessi vent’anni di 162 miliardi.
Gli investimenti hanno indubbiamente permesso il «catch-up» con il resto d’Europa, cioè di avvicinarsi al tenore di vita mediano nella Ue. L’Ungheria è passata dal 63% del 2004 al 74% attuale; la Slovacchia dal 50% al 68% del 2022; la Repubblica ceca dal 75% al 91%; la Polonia dal 51% all’80% del 2023. Ovviamente, il buon uso dei soldi ha fatto la differenza. Se oggi si parla di un miracolo economico polacco, se gli stipendi crescono più che in qualsiasi altro Paese Ue, se si è rovesciato perfino il saldo immigratorio — e per la prima volta più polacchi rientrano dalla Germania di quanti vi emigrino — la Polonia lo deve alla riuscita integrazione europea.

L’oligarca ungherese

Il 90% della spesa pubblica in Ungheria è fatta con fondi Ue: vuol dire che Orbán può usare la spesa nazionale per indirizzare le politiche a cui tiene di più. Non solo. La peculiarità ungherese (e in parte slovacca) è l’uso «oligarchico» di questi soldi. Una parte consistente è gestita da amici imprenditori di Orban, come il genero István Tiborcz, l’«elettricista» che ha vinto gli appalti per i lampioni pubblici, o Lőrinc Mészáros, l’idraulico diventato l’uomo più ricco d’Ungheria.
Si è scritto molto, anni fa, della costruzione della Puskas Arena a Felcsút, nel villaggio natale di Orbán — affidata al fido Mészáros. Uno stadio per omaggiare l’amore del leader per il pallone: ha 4 mila posti, sebbene il suo villaggio conti 2mila abitanti. Nel costo è compreso un trenino dalla vicina valle di Vál, che nei primi 17 giorni — quando ci salì il giornalista del Guardian — non aveva trasportato neppure un passeggero.

Italia si, Italia no

In una certa misura, nessuno rinuncia al veto. Per l’Italia, l’hanno agitato governi di centro-sinistra e centro-destra: BerlusconiRenzi (sui migranti) e Conte, che lo ventilò la notte della trattativa sul Pnrr, in cui poi arrivarono 194 miliardi. Però l’Italia è stata sempre tra i Paesi che ne chiedono il superamento. Nel 2023 venne anche istituito un club informale degli amici del voto a maggioranza (Italia, Germania, Francia, Spagna, Belgio, Finlandia, Olanda, Slovenia). E la fine dell’unanimità è un cavallo di battaglia delle famiglie politiche europeiste da anni: da quando l’allargamento ha reso più farraginoso il funzionamento della Ue. Ed è stato invocato da tutti i Presidenti della Repubblica italiana e dai suoi presidenti del ConsiglioDraghi lo ritiene propedeutico alla sua agenda.
Però il 24 ottobre scorso, questo indirizzo è cambiato. Giorgia Meloni dice in Parlamento: «Non sono favorevole ad allargare il voto a maggioranza, in luogo dell’unanimità, all’interno delle istituzioni europee». Aggiungendo che «certo sarebbe utile per l’Ucraina, ma su molti altri temi le posizioni della maggioranza potrebbero essere distanti dalle nostre e dai nostri interessi nazionali, che è mia priorità difendere».
E spiazza il ministro degli Esteri Tajani, vicepresidente del Ppe, che a botta calda dichiara: «Penso invece che si debba fare qualche passo in avanti», poi però in un’audizione alla Camera il 9 novembre si corregge e lo definisce «non all’ordine del giorno». In una recente intervista al Corriere è tornato a invocare la necessità di passare a maggioranza in molti ambiti; ma in tutta risposta FdI ha ribadito la posizione della premier. Un cambiamento significativo, perché allontana l’Italia (Paese fondatore) dal gruppo di Paesi che vogliono superare il meccanismo dell’unanimità per dare alla Ue più forza e rapidità d’azione, e la colloca su posizioni più vicine al campo sovranista.  

Superare lo stallo

Sui fondi russi congelati in Belgio si decide il 18 dicembre. Sappiamo che Ungheria Slovacchia sono contrarie ad un utilizzo in favore dell’Ucraina, ma il testo è costruito in modo che alcune soluzioni (ma non tutte) permettano di evitare il veto. Si deve in ogni caso superare l’opposizione del Belgio, che detiene gli asset. Ma allora – aldilà delle soluzioni sul tavolo per i beni russi, che è anche una partita finanziaria – quali strumenti ci sono per una politica estera comune, per superare l’unanimità?  Pronti già oggi?
1. La «passerella». Mai usata finora, ma prevista dal trattato di Lisbona. In casi limitati consente al Consiglio europeo di decidere a maggioranza, purché prima vi abbia acconsentito all’unanimità. Una scappatoia che permette ad uno o più Paesi di chiamarsi fuori senza bloccare gli altri.
2. L’astensione costruttiva. Fino a un terzo dei Paesi si astiene (e viene esentato dall’impegno), permettendo agli altri di agire.
3. Le cooperazioni rafforzate. Consentono a un gruppo di Paesi di portarsi avanti in alcuni settori, cooperando volontariamente tra loro. Se attuata, può essere un game changer.
In prospettiva potrebbero permettere di costruire un primo, più stretto nucleo della difesa. Magari sul modello dei volenterosi per l’Ucraina. Che resta — è importante notarlo – un’iniziativa fra governi, dove un ruolo guida ce l’ha la Gran Bretagna (che è fuori dalla Ue) insieme a FranciaGermania Polonia. Eppure, dopo la pubblicazione del documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale Usa che semplicemente liquida l’Europa o la battezza come l’avversario, in molti Paesi cresce il senso di urgenza, una maggiore volontà di autonomia strategica. In Germania, storica alleata degli Usa, si parla di «seconda svolta epocale», dopo il distacco dalla Russia.
Ci sono poi i precedenti storici. L’Europa ha sempre agito allargando piccoli nuclei. Quando si è deciso di adottare l’euro, erano in 12 Paesi, oggi sono diventati 20Sull’abolizione delle frontiere (Schengen) erano d’accordo in cinque, ora si è estesa a 29, ed è entrato anche chi sta fuori dalla Ue, ovvero Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera.

Ed è quello che si sta provando a fare con la difesa europea. L’Ucraina insegna: tenere il diritto di veto su tutta la politica estera permette a chi rema contro, e incassa fondi come da un bancomat, di fermare l’azione di tutti.

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