
(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – Un chiarimento è d’obbligo. Dopo l’ultimo articolo “Un Rutte ci seppellirà” – più ironico e sferzante del solito – che prende di mira il segretario Mark Rutte e la funzione stessa della Nato, ho ricevuto qualche messaggio privato: “ma sei davvero diventato putiniano allora?” mi chiedeva qualcuno, fra il serio e il provocatorio. Come se non bastasse, diversi fra gli account che mi seguivano assiduamente hanno deciso di interrompere l’abbonamento su Substack. Della serie: ne fa più fuori la penna che la guerra. Allo stesso tempo, però, ho notato un buon numero di nuovi sottoscrittori in entrata. Segno di quanto il dibattito sia oggi irrimediabilmente polarizzato.
Rispondo nel merito, non perché le mie posizioni personali abbiano particolare importanza, ma nella convinzione che parlando di me e delle mie idee qualcuno possa riconoscersi o confrontarsi.
Non ho mai avuto esitazioni su ciò che accadde dal 22 febbraio 2022: l’aggressione russa contro l’Ucraina, accompagnata dai crimini di guerra che il regime di Mosca continua a infliggere a Kyiv. A mente fredda, come molti, ho ritenuto inevitabile l’aiuto militare della Nato e dell’Europa: non si poteva abbandonare l’Ucraina nelle mani di Putin. Su questo punto la mia convinzione non è mai mutata: stare dalla parte di Kyiv era ed è un dovere. Eppure, rimane intatta anche un’altra certezza: ogni giorno dedicato alla guerra è un giorno sbagliato, un giorno irrimediabilmente perduto.
Con il tempo, lontano dall’emotività iniziale, ho iniziato a guardare con più distacco alla narrazione. Ho distribuito le responsabilità nelle giuste caselle. Ho approfondito – come molti – che già dal 2014 la pressione della Nato sul Donbas e sull’Ucraina non fosse affatto disinteressata. Ma, sia chiaro, nulla giustifica l’aggressione russa. Mosca porta la responsabilità di aver trasformato una guerra – fino ad allora – sotterranea in un conflitto ad alta intensità, uno scenario da incubo con centinaia di migliaia di vittime civili e militari. Inaccettabile.
Un punto fermo dunque: l’Ucraina e Zelensky, pur tra scandali e terremoti politici che verranno, andavano aiutati a difendersi. Una posizione morbida allora avrebbe incoraggiato l’orso russo a spingersi oltre il Donbas, fino a ingoiare l’intera Ucraina e – chissà – coltivare mire egemoniche sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia. Io sono ancora lì. È quello il mio frame di riferimento. Per quanto continui a pensare che la guerra non sia mai una soluzione.
Ciò che è davvero mutato – ed è sotto gli occhi di tutti, come ho ricordato in decine di articoli – è la percezione di una follia che ormai sembra dilagare anche in Europa. I venti di guerra soffiano gelidi nelle capitali europee. La decisione del riarmo – Rearm EU, con il 5% del budget destinato alla difesa – ha improvvisamente acceso una retorica preoccupante. La diplomazia si è inabissata nelle pieghe più ottuse del silenzio. Leader che parlano apertamente di armamenti, che rispondono muscolarmente e in modo scomposto alle provocazioni di Putin: così il rischio di escalation diventa concreto, e l’intera Europa potrebbe finire in fiamme. Anche senza volerlo. Il contrario di ciò che penso io, e – spero – la maggior parte degli uomini di buona volontà.
Pertanto, non per favorire il regime criminale di Mosca, ma per fermare l’emorragia di morti civili e scongiurare una pericolosa escalation che potrebbe portarci alla terza guerra mondiale, la mia posizione è a favore del congelamento del fronte. Ne ho scritto più volte: accettare cioè – almeno temporaneamente – che una parte del Donbas resti sotto Mosca. Normalizzare l’area. Ricostruire. E porre così termine, con un pacchetto di garanzie di sicurezza per l’Ucraina e per l’Europa, a una delle guerre più ingiuste che abbiano mai preso piede sulla terra. Se mai ci sia stata una guerra giusta da combattere.
È una posizione di realpolitik, che mette al centro il valore della vita più che la giustizia assoluta. Non significa lisciare il pelo a Putin, né ammettere che abbia vinto la legge del più forte. Significa, piuttosto, ribaltare l’assunto: vincere mettendolo nelle condizioni di non fare più male.
Ecco perché ogni posizione come quella di Mark Rutte – ragazzone olandese amante della musica e dell’arte – va contrastata. Perché da quelle premesse muscolari non si arriva da nessuna parte, se non dritti verso la terza guerra mondiale.
Lanci la pietra e nascondi la mano?
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Articolo ineccepibile sul piano morale, ma storicamente semplificato e carente di realismo.
L’articolo è un testo di posizionamento, più che di cronaca: nasce come risposta a una reazione del pubblico e come chiarimento politico-morale dell’autore.
In questo senso è onesto, coerente e dichiaratamente soggettivo, ma proprio per questo espone alcune fragilità tipiche dell’editoriale d’opinione in un paese storicamente polarizzato.
L’insistenza sul costo umano della guerra è uno dei passaggi più forti; l’autore ribalta il paradigma dominante (vittoria/sconfitta) sostituendolo con la priorità della vita.
La proposta cardine, ovvero congelare il fronte accettando temporaneamente la perdita di parte del Donbass, viene presentata come l’unica alternativa razionale all’escalation, ma presenta lacune che, benché giustificabili se viste nella prospettiva di dare priorità alla vita, non possono essere ignorate
Manca un’analisi delle conseguenze a medio-lungo termine per l’Ucraina; ignora precedenti storici (Corea, Georgia, Moldova); manca di una spiegazione del perché questa scelta non rafforzi, anziché contenere, la logica dell’aggressione.
Pur ribadendo che nulla giustifica l’invasione russa, il riferimento alla pressione Nato dal 2014 è impreciso; nel 2014 non c’è stata nessuna pressione Nato; al limite avrebbe dovuto riferirsi al vertice Nato del 2008 a Bucarest.
Fu li che venne dichiarato che l’Ucraina e la Georgia sarebbero diventati membri Nato, ma senza calendario, MAP o garanzie reali.
Risultato: per Mosca una minaccia futura; per Kyiv una falsa sicurezza; per l’occidente nessuna responsabilità formale.
Ed infatti non accade nulla.
Nel 2014 Il vero nodo è l’Accordo di Associazione con l’UE (DCFTA Deep and Comprehensive Free Trade Area): Bruxelles spinge per l’accordo, Mosca lo percepisce come uno strappo strategico, Yanukovych fa marcia indietro cui seguono le proteste di Maidan.
La frattura è politica e ancor più economica, non militare.
Li l’occidente commette un secondo errore, l’idea tedesca del Wandel durch Handel porta all’ambiguità: condanna politica + affari energetici; sanzioni simboliche + Nord Stream.
Risultato: vedere l’Ucraina come “terra di mezzo” tra NATO e Russia e non come soggetto con una propria volontà politica nazionale; delegittimando così le aspirazioni ucraine e rafforzando la narrativa russa della sfera di influenza.
Parlare di neutralità dell’Ucraina è puro surrealismo; se nel 2013 questa è stata un’opzione mancata oggi è un’illusione retrospettiva.
L’Ucraina è già dentro l’economia europea; DCFTA è operativo; migliaia di norme ucraine sono state allineate agli standard UE, riscritte ed armonizzate.
Tornare a una “neutralità” significherebbe smontare riforme già fatte; perdere accesso preferenziale al mercato europeo; spaventare investitori e donatori.
È un costo economicamente suicida.
La ricostruzione ucraina (quando avverrà) sarà finanziata in larga parte da istituzioni occidentali e chi paga, decide le regole.
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