A New Delhi il comitato intergovernativo ha detto sì. Una prima volta storica: finora erano state riconosciute pratiche gastronomiche singole, mai un insieme nazionale. Ma attenzione, quello che si premia non sono piatti e ricette, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo

Cucina italiana, è fatta: diventa Patrimonio immateriale dell’Unesco

(di Eleonora Cozzella – repubblica.it) – Se la carbonara avesse le gambe oggi salterebbe di gioia. Alle 10.44 ora italiana, a New Delhi, il Comitato intergovernativo dell’Unesco ha detto sì: la cucina italiana entra ufficialmente nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non un piatto, non il disciplinare di un prodotto, ma un modo di stare a tavola, di cucinare, di riconoscersi, di pensare al cibo.

È una prima volta storica: finora l’Unesco aveva riconosciuto singole specialità e pratiche gastronomiche – dal pasto gastronomicofrancese alla cucina del Michoacán, dal washoku giapponese al kimchi coreano, fino al borscht ucraino – ma mai l’intera cucina di un Paese. Oggi, insieme alla Dieta mediterranea, all’arte dei pizzaiuoli napoletani, alla cerca e cavatura del tartufo, alla viticoltura ad alberello di Pantelleria e ai paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato, entra in lista tutto l’insieme che potremmo dire teorico pratico: la cucina italiana nel suo complesso, con le sue infinite varianti regionali e familiari.

La candidatura, si sa, non è nata ieri. Il dossier “La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale” è stato curato dall’Ufficio Unesco del Ministero della Cultura e redatto dal giurista Pier Luigi Petrillo con il coordinamento scientifico dello storico dell’alimentazione Massimo Montanari, a capo di un comitato di esperti.

Sul fronte istituzionale i promotori principali sono stati il Masaf e il Ministero della Cultura, affiancati da un tessuto di soggetti che la cucina italiana la studiano e la praticano da decenni: l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi (custode della “cucina di casa italiana”), la rivista La Cucina Italiana, che con la direttrice Maddalena Fossati nel 2019 ha acceso la scintilla della candidatura, e poi Anci, Slow Food, Federazione Italiana Cuochi.

Nel dossier non c’è un piatto feticcio, c’è un’idea: la “cucina degli affetti”. Una pratica quotidiana tessuta di saperi, gesti, rituali condivisi; la scelta delle materie prime, il rispetto delle stagioni, l’uso creativo degli avanzi, la biodiversità come condimento invisibile. È il pranzo della domenica, il ragù vegliato a sobollire per ore, la tovaglia candida che si stende per apparecchiare e si ritira bella macchiata di sugo alla fine (magari dopo caffè e ammazza-caffè), è la mano che passa il pane, ma che non passa il sale (porta male!).

Gli estensori insistono su una parola chiavemosaico. La cucina italiana è descritta come un insieme di cucine locali, comunitarie, famigliari, che non si lasciano ridurre a una gerarchia di piatti “più veri degli altri”, ma dialogano tra loro e con il mondo. Nel mosaico entrano i pomodori arrivati dalle Americhe, la pasta secca passata per vie arabe e mediterranee, le contaminazioni delle comunità italiane all’estero. L’idea di fondo è chiara: non si sta candidando un monumento, ma un organismo vivente, in continua evoluzione, con ricette e pratiche non cristallizzate, ma che cambiano nel tempo.

Con il voto di oggi l’Unesco riconosce questo organismo come patrimonio da salvaguardare. Attenzione: non è un marchio di superiorità – non esistono cucine “più patrimonio” di altre – né un bollino commerciale da appiccicare sulle confezioni. È un impegno. In base alla Convenzione del 2003, l’Italia dovrà inventariare e proteggere questa pratica culturale insieme alle comunità che la tengono viva: famiglie, cuochi, produttori, associazioni. Vuol dire sostenere ricerca, educazione alimentare, progetti nelle scuole, musei del gusto, archivi della memoria culinaria. Vuol dire, ogni sei anni, presentare un rapporto all’Unesco su come stiamo trasmettendo questa eredità alle generazioni future.

Sul piano simbolico, il riconoscimento dice al mondo che la nostra identità passa anche dalla tavola. Sul piano concreto, diventa uno strumento in più nella battaglia contro l’Italian sounding: di fronte a un gombonzola o a un falso aceto balsamico, ci sarà anche l’ombrello di un patrimonio riconosciuto a livello internazionale, oltre alle (già fondamentali) tutele Dop e Igp.

La cucina degli affetti, però, non esisterebbe senza chi la quotidianità la trasforma in gesto professionale, in racconto, in responsabilità. Non stupisce che Massimo Bottura, da anni ambasciatore del gusto italiano nel mondo, oggi parli di “giornata storica” ai quotidiani come il Washington Post che lo intervistano per il pubblico internazionale e alle telecamere di Rai Uno, ospite di Antonella Clerici. “Viaggio tantissimo, le vedo le altre cucine, e posso assicurare che la nostra non ha pari nel mondo. È la somma di centinaia di micro-cucine, ma ovunque, che sia un cuoco o una rezdora, si preparano cibi con un amore che non ha rivali. La somma di tutti questi riti collettivi è la cucina italiana”.

Sul versante più pop ecco Barbieri: “Se la cucina italiana merita il riconoscimento Unesco? Sì, certo. Abbiamo lottato una vita per arrivare qua. Non ci sono paragoni al mondo. Se negli Usa vuoi avere successo devi aprire un ristorante italiano. Mangi bene, con chef ben preparati. I loro ristoranti sono pieni, le prenotazioni si fanno mesi prima. La contaminazione c’è sempre stata”. “Il riconoscimento non è un traguardo ma un punto di partenza – prosegue lo chef Giorgio Locatelli – Per il Paese cambierà molto. È il momento di far diventare la cucina italiana un patrimonio. È una cucina che rappresenta differenti metodi, storie, una cucina che è stata come una Cenerentola e piano piano ha conosciuto la sua potenza e con questo riconoscimento lasciamo che si mischi con altre cucine e con l’arte del quotidiano di altre nazioni”.

Insomma, la cucina italiana esiste perché esistono comunità che la praticano. Ma attenzione, Massimo Montanari docet. Il presidente del comitato scientifico della candidatura sottolinea che questo risultato non si festeggia per rivendicare una supremazia ma per ringraziare le molte culture che, nei secoli, hanno plasmato il nostro modo di mangiare, e proporre al mondo un modello fondato su interculturalità, libertà in cucina, multiculturalismo gastronomico.

Tradotto: non è un via libera al “noi contro gli altri”, ma un invito a riconoscere che l’italianità è sempre stata un gioco di scambi. Il rischio opposto è cristallizzare la cucina in una cartolina per turisti, congelare la tradizione in un fermo immagine. Qui la responsabilità non è dell’Unesco, ma nostra: dipenderà da come useremo questo sigillo nelle politiche culturali, nel turismo, nella ristorazione. E adesso? Da oggi in poi la cucina italiana non sarà più solo quella cosa che tutti dicono di amare: sarà anche un impegno scritto nero su bianco. Va letta non come un trionfo da cantare a colpi di “siamo i migliori”, ma come un promemoria collettivo.

Promemoria che la biodiversità non è una parola trendy ma il motivo per cui un piatto di cicoria ripassata e uno di risotto ai bruscandoli non raccontano lo stesso paesaggio. Che la “cucina degli affetti” non è solo nostalgia, ma la possibilità di usare il pasto come strumento di inclusione, educazione, cura. Che difendere questo patrimonio significa occuparsi di chi lo rende possibile: agricoltori, pescatori, casari, artigiani, cuochi, ma anche famiglie che continuano a tirare una sfoglia, magari storta, sul tavolo di casa.

Oggi, 10 dicembre, molti stapperanno una bottiglia “per festeggiare l’Unesco”. La proposta è anche di brinderei a qualcosa che al contempo è più semplice e più difficile: la promessa di continuare a meritarselo. A continuare a sporcare tovaglie, a passare il pane, a litigare (civilmente) sulla carbonara senza panna ma poi a dividerla. Perché da oggi la cucina italiana è patrimonio dell’umanità. Ma, prima di tutto, resta patrimonio di chi, ogni giorno, si mette a tavola.