Soldiers belonging to the South Sudanese Unified Forces sit on a track as they depart after a deployment ceremony at the Luri Military Training Centre in Juba on November 15, 2023. Hundreds of former rebels and government troops in South Sudan’s Unified Forces were deployed at a long-overdue ceremony on November 15, 2023, marking progress for the country’s lumbering peace process. (Photo by Peter Louis GUME / AFP)

(Matteo Parini – lafionda.org) – Se la corruzione degli oligarchi ucraini e il genocidio della Palestina sembrano oggi coinvolgere emotivamente una fetta crescente di opinione pubblica – verrebbe da dire che non è mai troppo tardi – non si può certo dire lo stesso dell’immane tragedia umanitaria che da anni fa del Sudan l’ennesimo angolo di inferno in Terra. Situazione complicata, per la verità, che si prova qui a raccontare a partire da un breve excursus storico.

All’inizio del nuovo millennio Omar al-Bashir è al governo già da una decade, da quando, alla testa di un colpo di Stato militare, rovescia il governo eletto di Sadiq al-Mahdi. Il suo è un sistema autoritario in un Paese segnato da profonde differenze etniche e culturali. Guerriglie e violenze, pertanto, sono la stretta attualità di quei giorni. Il neonato Consiglio di Comando Rivoluzionario per la Salvezza Nazionale – di fatto una giunta militare che concentra il potere nelle mani delle forze armate – insieme all’influenza ideologica di Hassan al-Turabi, l’ideologo del radicalismo religioso e del Fronte Islamico Nazionale, trasforma il regime in una dittatura a carattere islamista con una solida centralizzazione del potere. In quel lustro, dal 1991 al 1996, il Sudan ospita anche Osama bin Laden.

Il sodalizio tra al-Bashir e al-Turabi si spezza già alla fine degli anni Novanta: il primo teme la crescente popolarità del secondo che, come spesso accade in questi contesti, finisce incarcerato. Con l’epurazione dell’alleato divenuto scomodo, al-Bashir rimane il leader incontrastato di un Paese pronto ad esplodere. Inflazione alle stelle, pane che manca, così come medicinali e carburante, alimentano proteste popolari che nel Darfur diventano particolarmente agguerrite.

Il perché l’epicentro del malcontento sia proprio il Darfur è presto detto. Oltre alla drammatica situazione economica generale, la popolazione africana non araba della regione percepisce con buone ragioni di essere trattata come cittadina di seconda classe. Gruppi etnici come i Fur, i Masalit e gli Zaghawa sono esclusi dalle cariche di governo, quasi impossibilitati a ricoprire incarichi nell’esercito, privati del sostegno statale in materia di scuole, ospedali e infrastrutture. A tutto ciò si aggiunge la questione dell’acqua. Il Darfur è una regione arida e nei conflitti tra pastori nomadi arabi e agricoltori sedentari africani il governo di Khartoum finisce sempre per penalizzare questi ultimi.

Non sorprende, dunque, che le comunità autoctone si organizzino in movimenti di ribellione: nascono il Sudan Liberation Army e il Justice and Equality Movement, quest’ultimo vicino ad al-Turabi. Entrambi rivendicano i diritti negati dal regime di al-Bashir. Marginalizzazione politica, discriminazione etnica, conflitti per le risorse, assenza di mediazione tradizionale e diritti calpestati sfociano nell’attacco alla base governativa di El-Fasher. È la scintilla che fa esplodere la guerra.

L’esercito regolare risponde con una brutale repressione, appoggiandosi a milizie regionali occasionali che, dieci anni più tardi, confluiranno nelle RSF, le Rapid Support Forces. Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”, diventa il leader di una forza paramilitare leale all’establishment che si affianca all’esercito regolare, il SAF (Sudan Armed Forces). Fino al 2019, la presenza di al-Bashir funge da collante tra due anime destinate a divergere. Alle RSF spetta il controllo delle miniere d’oro e delle rotte commerciali, al SAF quello dell’apparato statale e delle frontiere.

La crisi economica, il malgoverno e la corruzione endemica spingono la popolazione stremata a scendere in piazza. Inoltre, dal 2011, con l’indipendenza del Sud Sudan, alle casse dello Stato viene sottratta la quasi totalità del petrolio, causando un ammanco enorme. Nel dicembre 2018, ad Atbara, la protesta per il prezzo del pane triplicato diventa simbolo del cambiamento imminente. Dalle rimostranze di piazza nasce il Consiglio Militare di Transizione guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, con Hemedti come vice, che raccoglie effettivi sia delle RSF sia del SAF.

L’esercito, dunque, volta le spalle ad al-Bashir che viene arrestato con l’accusa di ostacolare la stabilità del Paese. Ma, nonostante la caduta del dittatore, le proteste non si placano e le due anime del CMT cominciano a mostrare insofferenza reciproca. La popolazione chiede un governo civile; al-Burhan vuole inglobare le RSF nel SAF entro due anni; Hemedti esige almeno una decade di autonomia, convinto di poter fare all-in sul Paese in quel periodo di transizione. Ambizioni inconciliabili.

Khartoum, centro dell’egemonia politica del Sudan, è teatro della frattura insanabile. Nel 2023 le RSF organizzano un’adunata militare non concordata intorno alla capitale con l’esercito che interpreta la mossa come un tentativo di colpo di Stato. Forte del controllo sulle risorse del sottosuolo, Hemedti punta alla capitale per estromettere al-Burhan dal potere. Inevitabilmente Khartoum diviene il campo di battaglia, la genesi della guerra civile sudanese.

I due eserciti fortificano le rispettive posizioni con il SAF nelle basi tradizionali e le RSF nelle regioni controllate, e il conflitto si estende a macchia d’olio al resto del Paese, intrappolando milioni di civili sotto il fuoco incrociato. Inizia la carneficina, una guerra di logoramento tra artiglieria pesante, mezzi blindati e droni. La carestia, secondo la definizione di FAO e FSNAU, colpisce oltre il 20% della popolazione con insicurezza alimentare grave, il 30% dei bambini sotto i 5 anni soffre di malnutrizione acuta e il tasso di mortalità supera le 2 persone ogni 10.000 al giorno per fame e malattie correlate.

Uno scontro che diventa progressivamente più asimmetrico e muta le sue dinamiche. Lo scorso marzo l’esercito di al-Burhan riconquista Khartoum e dichiara la capitale “liberata”, mentre le RSF mantengono il controllo delle aree periferiche e dei corridoi economici. È guerriglia urbana, la forma di guerra peggiore per la sopravvivenza dei civili. Secondo l’UNHCR, oltre undici milioni di persone sono sfollati interni e quattro milioni hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi. Metà della popolazione soffre fame acuta. Ondate di omicidi etnici fanno oggi della crisi sudanese, secondo l’ONU, la peggiore emergenza umanitaria del mondo.

Il SAF, in sintesi, controlla una capitale ridotta in macerie, con le RSF che si radicano nel Darfur e conquistano città strategiche come al-Mahla e al-Rahid per proteggere le aree ricche di risorse e instaurare una governance parallela. Il Sudan appare, così, spaccato in due, al netto del Sud Sudan che resta una fragile entità riconosciuta. Eppure al resto del mondo sembra importare poco che trenta milioni di sudanesi siano a rischio di morte per fame, nonostante le prime immagini terrificanti inizino a circolare sul web nell’epoca dei genocidi in diretta streaming.

La situazione nel Darfur è, se possibile, quella peggiore, dove le RSF hanno appena conquistato El-Fasher al termine di un assedio durato diciotto mesi. Testimoni fuggiti dalla città, ultima roccaforte del SAF nella regione, riferiscono di scene raccapriccianti: violenze sessuali, massacri, esecuzioni di civili mentre decine di migliaia di persone tentano invano di scappare.

Intanto cominciano a cristallizzarsi le posture degli attori esterni, con la prospettiva di una guerra di attrito a tempo indefinito e di una spartizione de facto del Sudan che appare sempre più concreta. Gli Emirati Arabi Uniti, i principali alleati di Israele nella regione, rafforzano il controllo delle RSF sul Darfur in cambio di accesso all’oro e alle rotte del Mar Rosso. Stati Uniti, lo stesso Israele, Regno Unito e Francia rincorrono le stesse ambizioni coloniali. La stessa piramide di potere e interessi globali che opera a Gaza, un sinistro filo rosso che collega idealmente i popoli martoriati di Palestina e Sudan. Armi occidentali e diplomazie conniventi, morti di serie A e di serie B, il tristemente consueto doppio standard del Nord globale quale colonna sonora dei genocidi in atto.

La disintegrazione del Sudan, inoltre, resta un obiettivo dichiarato del sionismo israeliano, che già nel 2011 si era adoperato con raid aerei tollerati dalla Comunità internazionale per raggiungere tale scopo. Conseguenza di quella ingerenza, come accennato poc’anzi, fu la nascita eterodiretta del Sud Sudan in chiave essenzialmente anti-iraniana. Da Israele, non deve stupire, arriva dunque il sostegno allo sforzo bellico delle RSF e agli annessi massacri in cambio della cessione di fatto della sovranità su un’area geograficamente strategica e di appetibili ricchezze.

Per Tel Aviv, ancora, il Sudan è tutt’altro che periferico: è un ponte geografico verso l’Africa e un’ancora strategica sul Mar Rosso, che protegge una delle arterie marittime più importanti del mondo, quella tra il Canale di Suez e lo Stretto di Bab el-Mandeb. Israele, in altri termini, utilizza la brutale guerra del Sudan per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la sua espansione militare nel Mar Rosso con il pretesto di proteggere le rotte di navigazione globali dalle minacce degli Houthi. Tradotto, la volontà di fare del Sudan una zona cuscinetto. 

Appare evidente come la situazione in atto non possa più essere interpretata soltanto come un conflitto civile o una crisi regionale. Si inserisce invece in un quadro geopolitico più ampio, che vede contrapporsi quello che viene definito l’Asse della Resistenza (Iran in testa, con Hezbollah, Hamas, Houthi e milizie sciite irachene) all’asse Stati Uniti–Israele. In questo contesto, cresce in questi ultimi la preoccupazione per una possibile saldatura tra i fronti yemenita e sudanese in un unico teatro di confronto, con il Mar Rosso al centro di una competizione strategica sempre più intensa. La contesa non riguarda più soltanto il controllo delle rotte marittime, ma la definizione degli equilibri strategici dei prossimi anni. Con Israele, già impegnata su più fronti bellici, che considera il controllo dell’area alla stregua di una questione di natura esistenziale con tutte le implicazioni del caso.

L’immagine odierna del Sudan restituisce, in definitiva, un Paese ormai sezionato in due in un contesto geopolitico più vasto che è campo di battaglia di ingombranti attori terzi. Per restare alla guerra intestina, da una parte l’esercito regolare, arroccato nel nord-est e determinato a preservare il proprio controllo; dall’altra le milizie paramilitari, radicate a ovest e sempre più autonome nelle loro catene di comando ed efferate contro i civili. Una geografia del potere interno fratturata che riflette la natura profonda del conflitto. Se il futuro del Sudan è avvolto nell’incertezza, l’unica realtà innegabile è l’emergere di un nuovo disastro umanitario; una crisi con poco appeal che sta lasciando una scia di morte e devastazione destinata a segnare ulteriormente questa fase terribile della storia contemporanea.