
(di Milena Gabanelli – corriere.it) – È il 6 novembre e Giorgia Meloni consegna ai social la sua irritazione per le critiche rivolte al governo che non avrebbe investito nulla sulla sicurezza: «Negli ultimi tre anni abbiamo già assunto circa 37.400 agenti nelle Forze di Polizia e prevediamo, da qui al 2027, altre 31.500 assunzioni. Abbiamo sbloccato investimenti fermi da tempo e potenziato mezzi, strutture e tecnologie, previsto strumenti più rapidi ed efficaci e introdotto pene più severe». È vero, sono stati introdotti 15 nuovi reati, dai rave al blocco stradale da parte di manifestanti, all’occupazione abusiva, e aumentate le pene, per esempio fino a 5 anni di reclusione nei casi di accattonaggio con minori. Ma basta rispondere a ogni problema con nuove fattispecie di reato o inasprimenti di pena? Dopo tre anni si possono valutare i risultati andando a vedere le risorse stanziate e le forze in campo.
Le Forze di Polizia
Il turn over dell’organico, bloccato nel 2010 dal governo Berlusconi poi confermato da Mario Monti, è stato sbloccato nel 2016 dal governo Renzi. Veniamo a oggi con i dati del ministero dell’Interno: a fine 2023 c’era un buco di organico nella Polizia di Stato di 10.271 unità. A fine 2024 era salito a 11.340 (Qui pag. 5) . L’anno prossimo entreranno 4.500 nuovi agenti, ma in 6.000 andranno in pensione. La finanziaria prevede un taglio del 25% del turnover. Nel corso degli anni una decina di scuole di Polizia sono state chiuse, e questo si scontra con la necessità di reclutare rapidamente nuove forze: i corsi di formazione durano fra i 4 e 6 mesi invece di 12. E poi i giovani agenti (quelli che la patente ce l’hanno, perché il bando non ne prevede l’obbligo) vengono sbattuti sulle volanti: oggi 6.851 agenti hanno meno di 25 anni, mentre gli oltre 20mila che superano i 55 sono destinati principalmente al lavoro d’ufficio (Qui pag. 6). Non va meglio con i Carabinieri, sottorganico di 12mila unità (Qui pag.41); alla Guardia di finanza mancano 5.905 uomini (Qui pag.5) ; infine, nella Polizia municipale, negli ultimi anni sono andati in pensione in 8.000, e rimpiazzati solo la metà (dati Anci).
2024: reati in aumento
La comparazione dei dati forniti dal Dipartimento di Polizia Criminale e del 2024 rispetto al 2023 (analizzati da Istat e dal Sole 24ore), confermano una tendenza in calo da tempo degli omicidi, ma in aumento i furti (3%), i reati legati agli stupefacenti (3,9%), le violenze sessuali (7,5%), le lesioni dolose (5,8%), le rapine (1,8%). Sono i reati che più influiscono sulla percezione di sicurezza dei cittadini. Il primo e secondo posto per numero di crimini lo incassano Roma e Milano, ma la statistica si fa sul numero dei reati rapportati a quello dei residenti e le grandi città sono popolate da studenti, lavoratori pendolari, turisti, che ne raddoppiano la popolazione. Su Milano per esempio gravitano ogni giorno 3 milioni di persone a fronte di 1,4 milioni di residenti. Per questo motivo le altre città dove i reati di allarme sociale sono cresciuti di più sono: Firenze, Bologna, Torino. Sul primo semestre del 2025 a livello nazionale c’è invece una tendenza generale al calo (meno 4,9%), ad eccezione dei furti in esercizi commerciali. La situazione poi ovviamente cambia da provincia a provincia: a Bergamo sono in aumento le lesioni dolose, minacce e violenze sessuali; a Milano i furti con strappo; a Bologna i danneggiamenti; a Brescia i reati legati agli stupefacenti. Nelle province di Firenze, Aosta, Alessandria, Asti, Bolzano, Foggia, Gorizia, Lecco, Lodi, La Spezia, Massa Carrara, Pistoia, Monza e Brianza, Novara, Padova, Pordenone, Prato, Reggio Emilia, Sondrio, Trento, Varese, Vercelli, il numero totale dei reati negli ultimi sei mesi è salito. Per sapere se questa tendenza si conferma o meno bisognerà attendere l’anno prossimo, quando sarà disponibile il consolidato su tutto il 2025. Occorre poi precisare che si tratta sempre di numeri relativi ai reati rilevati, e non a quelli reali perché spesso le vittime non denunciano: c’è la convinzione di perdere tempo e non risolvere nulla.
Pene più severe ma inapplicabili
Il decreto Sicurezza presentato come scudo a maggior protezione dei cittadini si scontra con un contesto dove non è cambiata una virgola. Aumentare le pene non serve a nulla se poi non si è in grado di applicarle. Per i piccoli reati in flagranza commessi da incensurati (spaccio, borseggio, furto, danneggiamenti) c’è l’arresto e l’immediata rimessa in libertà, con la conseguente reiterazione del reato. La norma prevede di destinarli a un periodo di lavori socialmente utili, ma mancano le strutture disponibili e gli uffici che se ne devono occupare. Le misure a seguito di indagini invece devono fare i conti con la riforma Nordio che impone la convocazione prima dell’arresto, e succede che l’indagato magari non si presenta al giudice: 22 borseggiatrici a Venezia sono scappate. Il sistema giudiziario, da tempo in grave affanno per carenza di organico, è rimasto tale; mentre quello penitenziario è al collasso: carceri sovraffollate, suicidi in costante aumento, percorsi di reinserimento e pene alternative praticamente paralizzati. Oggi oltre 100.000 persone, condannate in via definitiva a pene inferiori ai quattro anni, attendono ancora l’assegnazione di una misura alternativa, come i servizi di pubblica utilità. Con gravi ripercussioni anche sulla giustizia minorile, dove la situazione è ancor più grave e delicata.
Fronte migranti
Il 34,7% dei reati è commesso da stranieri, di cui il 70% da irregolari e quasi sempre connessi ad una condizione di marginalità. Non ha aiutato lo smantellamento del sistema integrato di accoglienza per i richiedenti asilo gestito dagli enti locali insieme al ministero dell’Interno. E tantomeno l’azzeramento dei pochi centri di integrazione e l’eliminazione dell’insegnamento della lingua italiana nei Cas. Il «blocco navale» invocato a gran voce per fermare ogni approdo non c’è stato, anche perché di impossibile attuazione. L’operazione «Albania» si è rivelata un fallimento, tanto prevedibile quanto costoso. Al di là della retorica sulle procedure accelerate, il vero nodo resta quello dei rimpatri effettivi, che richiedono una forte e persistente collaborazione dei Paesi di origine. Dopo 3 anni di continuità di governo la realtà è lontana dalle aspettative. Nonostante gli sforzi rivendicati, i risultati restano modesti: le percentuali di incremento, per quanto sbandierate, sono inferiori a quelle degli anni passati. I rimpatri fra il 2017 e 2019 sono stati 19.400 (Qui pag.23) , quelli del governo Meloni al 31 luglio 2025 sono stati in tutto 13.600 (Qui pag 34).
La colpa è sempre dei sindaci
I minori stranieri non accompagnati sono in aumento: 16.500 al 30 giugno di quest’anno, la maggioranza sono maschi. E lo Stato li scarica sui Comuni. La spesa sostenuta per i servizi resi nel triennio 2023-2025 è pari a 200 milioni di euro, ma finora il ministero dell’Interno ha erogato solo il 35%. I comuni della Sicilia, Campania, Emilia Romagna, Lombardia (dove c’è la maggior concentrazione di minori) si trovano con buchi di bilancio e la gestione di un impegno delicato, con evidenti ricadute sulla coesione sociale, sicurezza e decoro urbano. La responsabilità dei sindaci è creare situazioni che fermino il degrado e di investire nei centri di aggregazione giovanile per frenare l’espansione delle baby gang. I reati commessi da minori non sono mai stati così drammaticamente alti. Ai Comuni sono stati tagliati 2 miliardi di euro di trasferimenti (Qui pag.15). Dal Fondo Nazionale Sicurezza sono stati distribuiti in tutto, su tutti i Comuni, 25 milioni di euro per l’installazione di telecamere, provvedere all’illuminazione delle zone buie, e rigenerare le aree problematiche. Per l’edilizia popolare nemmeno un euro. E mentre si diffonde la legge del più forte, la Polizia municipale è cronicamente sottorganico. E i cittadini se la prendono con i sindaci. Ma come funziona la macchina di sicurezza pubblica?
Ognuno per conto proprio
Il Ministro dell’Interno è l’Autorità nazionale di ordine e sicurezza pubblica, e definisce le strategie da applicare sul territorio, che vanno di pari passo con l’autorità giudiziaria. Il suo braccio esecutivo è il Capo della Polizia: a lui fanno riferimento la polizia stradale, postale, ferroviaria, questure, commissariati, e le strutture interforze (Interpol, direzione antidroga, antimafia, cooperazione internazionale), a loro volta composte anche da carabinieri e finanzieri. Sul territorio, dove la percezione del cittadino sulla sicurezza è diretta, c’è il prefetto che recepisce le direttive del ministro e quelle operative del capo della Polizia. Per esempio: il ministro può spingere i provvedimenti di espulsione o alla cattura dei borseggiatori. L’operatività è affidata al questore, che per legge (n.121 del 1981), deve coordinare poliziotti, carabinieri, Guardia di finanza, vigili urbani. In che modo? Il prefetto convoca il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in cui siedono tutti, anche il sindaco del capoluogo, e si individuano le priorità. A questo punto immaginiamo che in una grande città, per esempio Milano, ci sia un’unica centrale operativa dove il questore, a cui tutti rispondono, indica le zone problematiche da coprire e quanti poliziotti, carabinieri, finanzieri e polizia municipale devono ruotare nel corso della giornata. Nella realtà, ci spiega l’ex direttore generale di Pubblica Sicurezza Franco Gabrielli, ricevuta la direttiva, la città viene divisa in zone, nell’ambito delle quali ognuno opera rispondendo al proprio capo: i carabinieri al Comando provinciale dei carabinieri (ministero Difesa), la Guardia di finanza al Comando provinciale della guardia del finanza (Mef), e la Polizia municipale al Sindaco. Oggi molto si regge su rapporti di forza e relazioni personali tra gli attori; quando gli ingranaggi scorrono, il sistema regge, ma in caso di attriti diventa ingestibile
Le resistenze degli apparati
Concretamente: la chiamata al 112 per una rapina in corso Venezia viene smistata dall’operatore alla Polizia, perché in quel momento opera in quella zona. La volante arriva, i rapinatori scappano verso piazzale Loreto, che è sotto il controllo dei carabinieri. L’ agente che si mette all’inseguimento, deve chiamare la sua centrale, che avvisa il comando dei carabinieri. Quindi succede che più macchine convogliano nella stessa zona, dove ognuno però risponde al proprio Comando, perché di fatto un coordinamento unico non c’è, a causa delle resistenze degli apparati. Le stesse resistenze che impediscono alla Polizia municipale di accedere alla banca dati interforze, nonostante sia prevista per legge dal 2017. Vuol dire che se la Municipale ferma un’auto per un controllo, deve chiedere alla propria centrale, che a sua volta chiede alla questura o al comando provinciale dei carabinieri di verificare al terminale la targa dell’auto e il nome del fermato. Una triangolazione che richiede un tempo sufficiente a mettere in pericolo gli ignari vigili perché magari si tratta di un pericoloso ricercato, o a consentirne la fuga. Inoltre viene ingolfata l’intera macchina operativa. L’esito di tutto questo è una dispersione di risorse e certamente non una maggior sicurezza, in un periodo in cui, purtroppo, nella società rischia di appalesarsi la legge del più forte. Una realtà che comporta un cambio di paradigma sul fronte dell’organizzazione delle forze di polizia e delle attività di prevenzione. Secondo gli operatori che stanno in prima linea, affrontare questo tema in modo propagandistico potrebbe portare a situazioni fuori controllo.
dataroom@corriere.it
La solita tempesta di centinaia di cifre.
Aggiungiamoci anche il ritorno del grande Cicalone, accompagnato pure da Filippo Roma:
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