Un ultimatum che sa di rappresaglia

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Il capo di stato maggiore israeliano Eyal Zamir ha lanciato un messaggio brutale: se Hamas non restituirà il corpo del soldato Hadar Goldin, Israele ucciderà duecento combattenti palestinesi intrappolati nei tunnel di Rafah. È un linguaggio di guerra totale, più da vendetta che da strategia. Goldin fu ucciso nel 2014 durante l’operazione “Margine Protettivo”, una delle più sanguinose campagne israeliane a Gaza. Undici anni dopo, il suo corpo diventa l’oggetto di un ricatto politico e simbolico, segno di quanto l’opinione pubblica israeliana viva ancora ossessionata dai propri caduti.
Dietro questa minaccia si nasconde la visione di un potere che rifiuta ogni simmetria: un corpo israeliano vale centinaia di vite palestinesi. La sproporzione non è casuale, ma rappresenta un cardine della dottrina di deterrenza israeliana, fondata sull’idea che solo la punizione esemplare possa scoraggiare l’avversario. È la “teoria della forza schiacciante”, radicata nel pensiero strategico di Tel Aviv sin dagli anni Cinquanta.
Il fragile cessate il fuoco di Trump
La crisi esplode nel pieno del cessate il fuoco mediato da Donald Trump lo scorso 9 ottobre. La cosiddetta “Linea Gialla” segna oggi il confine temporaneo tra l’area controllata dalle Forze di Difesa Israeliane e quella sotto influenza di Hamas. Ma il tracciato, impreciso e mutevole, è diventato un campo minato politico e militare. Israele controlla oltre metà della Striscia, inclusi Rafah, Beit Lahia e Beit Hanoun, mentre Hamas mantiene posizioni più arretrate. Il tunnel di Rafah, dove sono intrappolati i miliziani palestinesi, si trova proprio lungo questo confine ambiguo, simbolo di una tregua mai veramente rispettata.
Il premier Benjamin Netanyahu, inizialmente disposto a valutare un’uscita negoziata per i combattenti, ha poi ceduto alle pressioni della destra radicale, incarnata dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Quest’ultimo ha bollato ogni ipotesi di scambio come “pura follia”, confermando che la coalizione di governo è prigioniera del proprio estremismo.
La diplomazia parallela: Washington, Ankara e Doha
Gli Stati Uniti tentano di trasformare la crisi in un “caso di prova” per un possibile disarmo graduale di Hamas. Secondo Axios, la Casa Bianca avrebbe proposto che i combattenti si arrendano e consegnino le armi a una terza parte – Egitto, Qatar o Turchia – ottenendo in cambio un’amnistia condizionata. Un’idea che Israele ha respinto, ritenendo “inaccettabile” concedere clemenza a chi considera “terroristi irriducibili”.
Nel frattempo, il capo dell’intelligence turca Ibrahim Kalin e le autorità di Doha cercano di mantenere aperto un canale di comunicazione, ma le posizioni restano distanti. Per Ankara e Washington, la priorità è evitare un nuovo collasso del cessate il fuoco. Per Netanyahu, invece, la priorità è dimostrare forza, anche a costo di sabotare i negoziati.
L’economia della guerra permanente
Dietro la retorica militare si muove un’economia della guerra che da anni regge l’equilibrio interno israeliano. Ogni fase del conflitto a Gaza produce un flusso di contratti, forniture, e tecnologie di difesa che alimentano il complesso militare-industriale di Tel Aviv. Il mantenimento di un “conflitto controllato” assicura coesione interna e legittimità politica. Ma più la logica militare domina, più la politica diventa prigioniera della vendetta.
La liberazione di oltre 2.000 detenuti palestinesi e di 41 ostaggi israeliani, prevista nella prima fase dell’accordo di tregua, rappresentava un fragile tentativo di equilibrio umanitario. Tuttavia, le restrizioni israeliane all’ingresso degli aiuti umanitari e le minacce di rappresaglia rischiano di vanificare il processo. Gaza resta allo stremo: mancano carburante, acqua potabile e assistenza sanitaria, mentre Israele usa il controllo dei valichi come leva politica.
Vendetta e calcolo politico
La minaccia di uccidere 200 combattenti per il corpo di un soldato non è solo una dichiarazione di forza, ma un messaggio rivolto anche alla politica interna. Netanyahu, stretto tra le accuse di corruzione e la pressione dei partiti ultranazionalisti, cerca di dimostrare che solo la linea dura può garantire sicurezza e onore nazionale. È una strategia vecchia quanto Israele stesso: rispondere al lutto con la punizione collettiva, trasformando il dolore in potere.
Ma in questo caso, la logica di vendetta rischia di compromettere la fragile architettura del cessate il fuoco, spingendo Hamas a irrigidirsi e indebolendo il ruolo dei mediatori regionali. In un contesto già esplosivo, la sproporzione tra l’obiettivo (il corpo di un soldato) e la minaccia (duecento vite) rivela una distorsione morale che allontana la prospettiva di una pace sostenibile.
Un equilibrio impossibile
L’episodio di Rafah conferma quanto Israele resti intrappolato nella propria dottrina della deterrenza: mostrare forza per non apparire debole, colpire in modo sproporzionato per impedire la replica. Ma questa dottrina, se applicata a un contesto di guerra asimmetrica e urbana come Gaza, non produce sicurezza: genera solo cicli di violenza sempre più brevi e devastanti.
In questo scenario, l’Occidente si trova di fronte a un dilemma crescente. Continuare a sostenere Israele in nome della sicurezza o riconoscere che la “sicurezza assoluta” di uno Stato costruita sull’umiliazione di un intero popolo non è sostenibile nel lungo periodo.
E poi se li critichi sei anti-s3mita eh.
L’articolo dice già tutto: 1 mucchio d’ossa per 200 vite. Combattenti che difendono la loro terra (loro, non presa a chissà chi tramite violenze e inganni).
Adesso torniamo indietro al 2000.
Ve lo ricordate quel ragazzino ucciso dagli israeliani durante uno scontro a fuoco (in cui a quanto pare, sparavano solo gli israeilani)?
Ecco, sappiate che hanno avuto la faccia di negare non solo che sia stato ucciso da loro, ma che sia morto proprio, che la cosa è stata ‘finta’ in tipico stile Palliwood.
Killing of Muhammad al-Durrah – Wikipedia
E poi danno dei complottisti a quelli che hanno dubitato di COME si sia arrivati al 7 ottobre con la ‘incredibile’ sorpresa, malgrado fosse 1 anno che arrivavano segnali da ogni parte che Hamas stava preparando roba grossa.
Pensate che addirittura un dottore ha affermato che le ferite del babbo del ragazzino fossero vecchie cicatrici di anni prima, salvo essere sommerso di cause e di documenti medici che attestavano il contrario. E sapete che? Il governo israeliano finanziò la sua difesa, e quando lo assolsero dall’accusa di diffamazione BIBI si congratulò con lui.
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