Chi dovrebbe essere chiamato a rigenerare la politica è spesso l’erede di chi l’ha ridotta a una macchina di consenso clientelare. Il rischio è che la Sicilia venga governata non da un’idea di futuro ma dalla nostalgia di un passato compromesso e opaco

(di Lirio Abbate – repubblica.it) – In Sicilia non è mai il tempo della verità. Ogni scandalo è una ferita che non si cicatrizza, ogni inchiesta una pioggia che scivola via sul volto di pietra della politica regionale. Ora che anche Totò Cuffaro e Saverio Romano tornano a riempire le cronache giudiziarie con accuse, a vario titolo, di associazione per delinquere, turbativa d’asta e corruzione, qualcuno dovrebbe pure interrogarsi. A partire da chi ha il dovere istituzionale di difendere la reputazione e l’integrità della Sicilia: il governatore Renato Schifani, che ha nel suo governo gli uomini di Cuffaro e gli amici di Romano.
Già, perché la storia di Cuffaro e Romano è quella della Sicilia intramontabile, immarcescibile. Che sopravvive capovolgendo il lavoro della giustizia penale in persecuzione, le accuse in medaglie. Ecco perché Cuffaro, che pure ha pagato il suo debito con la giustizia, ha potuto non farlo con la politica e la decenza. Ecco perché gli è stato possibile tornare sulla scena con la nuova Dc, dopo una condanna per favoreggiamento alla mafia.
Anche Romano, a suo modo, è un prototipo del sopravvissuto. Il trasformista che cambia casacca, ma per restare al centro del gioco. Da pupillo di Cuffaro a ministro di Berlusconi, ha percorso trent’anni di politica scivolando tra le maglie larghe dell’ambiguità. È finito più volte nelle carte giudiziarie senza mai essere condannato, certo, ma oggi, insieme a Cuffaro, riemerge in una indagine che puzza di vecchio, di marcio, di antichi compromessi. Per questo possiamo dire che Cuffaro e Romano non sono una coppia ritornata. Semplicemente sono una coppia che non se ne è mai andata.
È lo specchio di una terra che sa da che parte sta il potere. Basta ricordare che il 19 luglio scorso, mentre l’Italia ricordava Borsellino, la Sicilia del potere brindava tra i filari di casa Cuffaro. Non era solo una festa di famiglia. Era un manifesto politico. Duemila persone, potenti e amici, e tra loro Gaetano Galvagno, presidente dell’Ars, che hanno scelto dove stare. Non tra chi celebrava la memoria, ma accanto al condannato di quella memoria. In Sicilia, del resto, non serve parlare. Conta la presenza quanto l’assenza. Quel giorno chi doveva rappresentare le istituzioni aveva preferito inchinarsi al passato che non passa. Nessuno si è voltato. Nessuno ha provato vergogna.
La Sicilia riemerge dunque nella sua dimensione paludosa. Ma c’è da chiedersi se ne sia mai uscita. La sanità pubblica, intorno alla quale ruota questa nuova inchiesta, è da decenni la cassaforte delle clientele, il ventre molle dove politica e malaffare si annidano. Oggi come ieri. L’industria più ricca dell’isola è anche la più contaminata. Ogni giorno che passa emergono storie di morti di malasanità, di esami istologici consegnati con notevoli ritardi, di laboratori che operano in pessime condizioni. In un sistema di potere che usa la sanità non per curare, ma per comandare.
Schifani, in tutto questo, tace. E il silenzio è colpevole. Due assessori indagati, il presidente dell’Assemblea regionale Galvagno coinvolto in un’inchiesta pesante, e altre indagini ancora che coinvolgono la maggioranza. Qui non è (solo) una questione giudiziaria. È una questione politica. Etica. Civile. Ogni giorno che passa senza un atto chiaro, ogni silenzio, scava un baratro sempre più profondo tra le istituzioni e i cittadini. Quel baratro si chiama rassegnazione. Quel sistema di potere, trasversale, impermeabile al tempo e agli scandali non deve essere più alimentato. Serve discontinuità. Un taglio netto con chi ha fatto della politica uno strumento di gestione privata della cosa pubblica.
Ma qui è il paradosso siciliano: chi dovrebbe essere chiamato a rigenerare la politica è spesso l’erede di chi l’ha ridotta a una macchina di consenso clientelare. Il rischio è che la Sicilia, ancora una volta, venga governata non da un’idea di futuro ma dalla nostalgia di un passato compromesso e opaco. Se anche oggi si esita, se anche oggi si fa finta di nulla, si legittima l’eterno ritorno dell’impunità. E se, alla fine, il prezzo poi che ciascun siciliano paga è morire per un referto ritardato, la politica, se ancora vuole dirsi tale, non può restare a guardare.