La presidente del Consiglio Giorgia Meloni 

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Tutti i governi mentono. Per saperlo non c’è bisogno di scomodare Hannah Arendt, che lo teorizzava già nel 1967: “Le menzogne sono sempre state necessari e legittimi strumenti non solo del politico o del demagogo, ma anche dello statista”. Ma con Giorgia Meloni al potere abbiamo toccato vette sublimi. Un’attitudine così sfacciata a manomettere la realtà dei fatti e a fabbricare verità alternative non si era vista dai tempi del Cavaliere, appena riesumato dalle destre illiberali per festeggiare una vendetta contro le Procure spacciata per “riforma della giustizia”. Se non puoi convincerli, confondili: la Sorella d’Italia ha elevato a sistema il vecchio motto di Truman. Qualunque impostura è utile, pur di nascondere l’evidenza di un Paese stabile ma immobile, che fa ammuina e nel frattempo declina. Quattro giorni fa, con un messaggio all’Assemblea annuale di Federmanager, la premier ha detto: “I principali indicatori restituiscono oggi la fotografia di un’Italia solida, che è tornata a correre e che è in grado di affrontare le difficoltà meglio delle altre nazioni europee”.

Ci vogliono cinismo e impudenza, per sparare tante falsità in una sola frase. Nelle stesse ore, l’Istat comunicava i nuovi dati sulla congiuntura. È il caso di ricordarglieli, senza rancore né autocompiacimento. A parte la produzione industriale in calo ormai da 26 mesi, ad agosto è sceso anche il fatturato dell’industria: meno 0,7% in valore, meno 2% in volume. Dopo un crollo dello 0,1% nel secondo trimestre, nel terzo il pil tricolore è rimasto inchiodato a quota zero, contro un aumento medio dello 0,2% nell’Eurozona. Peggio del Belpaese fanno solo Irlanda, Finlandia e Lituania, molto meglio la Spagna col più 0,6 e la Francia col più 0,4%. Se poi guardiamo al tasso “tendenziale” – cioè il raffronto tra il terzo trimestre del 2025 e quello del 2024 – il divario si allarga: l’Italia è cresciuta solo dello 0,4%, contro l’1,5% della media Ue dell’1,5, lo 0,9 della Francia e il 2,9 della Spagna. L’Istituto di statistica non è certo sospettabile di “infedeltà” (al contrario della povera Ragioniera generale dello Stato, colpevole solo di fare il suo dovere). Nonostante questo, formula una conclusione impietosa: al contrario del resto d’Europa, qui l’industria arretra, i servizi languono e i consumi diminuiscono. Questi sono i “principali indicatori”: quelli veri, non quelli inventati da Palazzo Chigi. E allora, signora presidente del Consiglio, dov’è “l’Italia solida che è tornata a correre”? Da quale azzeccagarbugli ha attinto i numeri che “ci consentono di affrontare le difficoltà meglio delle altre nazioni europee”?

La grancassa meloniana, amplificata dai tg di regime e dalle gazzette di complemento, suona la solita musica farlocca: l’occupazione è ai massimi e lo spread ai minimi, la Borsa vola e le agenzie di rating ci promuovono. Minestra riscaldata: i Fratelli di una volta l’avrebbero vomitata, quando dall’opposizione ruggivano contro l’Europa e l’euro, la finanza ebraica e i poteri forti, le tecnocrazie e le burocrazie. Oggi la cucinano direttamente loro, e la servono agli italiani più rancida che mai. Cito Carlo Cottarelli, non i sovversivi dell’opposizione “peggiore di Hamas”. Parliamo ancora di crescita? In Italia quella cumulata degli ultimi sette trimestri è stata dello 0,7%, cioè niente: ci guardano appenati persino i vecchi soci del Club Med, la Grecia al 3,5%, il Portogallo al 3,9 e la Spagna al 5,7. Parliamo di occupazione? Sta rallentando pure quella, e a spingerla ci sono solo i bassi salari ancora inferiori dell’8% ai livelli del 2021. Parliamo di spread? È calato a 75 punti base ed è un bene, ma ci battono di molto la Grecia con 64 punti, la Spagna con 50, il Portogallo con 36. Parliamo di superbonus? Governano da più di tre anni, e ancora scaricano le colpe sull’apposito Conte. Perché, invece, non ci parlano di Pnrr? Quello sì che è un “lascito ereditario” fondamentale: di qui al 2026 gli investimenti attivati con quel Piano contribuiranno alla crescita per 1,9 punti di pil. Vuol dire che senza il Pnrr l’Italia sarebbe in recessione già da due anni. E pensare che nel marzo 2021, al Parlamento di Strasburgo, Giorgia e i suoi Fratelli si astennero sul Next Generation Eu. Oggi è a lui che dovrebbero accendere un cero, non al santo di Arcore.

L’unica cosa buona e giusta che questo governo può rivendicare è la riduzione del disavanzo. In una mezza legislatura Giorgetti avrebbe potuto sfasciare i conti pubblici: non l’ha fatto, e ora con questa legge di stabilità quasi “draghiana” l’Italia può uscire addirittura in anticipo dalla procedura di infrazione decisa dall’Ue a fine 2023. Ma qui arriviamo al cuore della questione. Per rispettare i saldi di bilancio, Meloni ci propina la manovra economica più mediocre e modesta dal 2014 ad oggi. Non che le precedenti fossero migliori: ma questa brilla per paurosa inconsistenza. Pochi spiccioli sparsi qua e là, su qualche povero e qualche mamma, su frammenti di ceto medio e pezzetti di sanità. Per il resto, il ventiduesimo condono e l’ennesima tassa fantasma sulle banche (smerciata da Capitan Salvini come Robin Hood Tax, mentre è il solito acconto-papocchio). Insomma, il nulla cosmico. Eppure, un nulla salutato con soddisfazione da sigle sindacali affamate di collateralismo e incassato con sussiego da classi imprenditoriali assetate di consociativismo. Non solo: accompagnato da un inscalfibile favore dei sondaggi per l’underdog di Colle Oppio. Perché tutto questo? Perché le frutta, non fare niente e lasciare che l’Italia scivoli lentamente ma inesorabilmente nella stagnazione?

Viene da pensare che ci sia del metodo, in questa abulia. La prima spiegazione è forse più banale: Meloni sa bene che l’Italia avrebbe urgente bisogno di vere “riforme strutturali”, dal fisco alla previdenza, dal lavoro alla concorrenza, ma sa anche che per farle servirebbero scelte drastiche, scardinando rendite e privilegi, scontentando blocchi sociali a vantaggio di altri. Ma qui casca l’asino. Le riforme economiche hanno un alto costo immediato e un eventuale “dividendo” differito: e la Sorella d’Italia, auto-lanciata verso il Quirinale, non se le può permettere. Preferisce galleggiare e non disturbare nessuna constituency elettorale. Questo, probabilmente, spiega anche la sua inusuale tenuta nei consensi: complici un astensionismo dilagante e un’alternativa inesistente, alla premier basta tenere i suoi e non “fare male” a nessuno, per resistere e poi anche per rivincere.

La seconda spiegazione è forse più brutale: non spendere un centesimo di troppo con la legge di stabilità di quest’anno – uscendo anzitempo dal mirino della Commissione di Bruxelles – consentirà a Meloni di lucrare un ricco tesoretto e di rifare in deficit quella dell’anno prossimo. La manovra dell’autunno 2026 sarà l’ultima prima delle elezioni 2027: la vera partita del consenso si giocherà tutta lì. Allora sì che pioveranno miliardi a palate, tra sgravi e bonus, mance e prebende. E i patrioti trionferanno di nuovo, dimenticando Mario Draghi e riscoprendo Cetto Laqualunque. Con tanti saluti al Campo Largo, a Elly Schlein pure ad Hannah Arendt.