Apertura dell' anno giudiziario a Napoli, il Comitato Direttivo dell'Anm in segno di protesta contro la riforma della separazione delle carriere

(di Michele Ainis – repubblica.it) – La maggioranza ci regala la meno conclamata delle riforme. Fermo il premierato, arenata l’autonomia differenziata, arriva una giustizia nuova. Succede, in politica così come nella vita: ogni giorno è una sorpresa. Tuttavia in questo caso la sorpresa investe le regole del gioco, i fondamenti costituzionali del nostro vivere comune; e allora sarà bene valutarla a mente fredda, senza lasciarci assordare dall’urlo delle tifoserie. Tanto più che in primavera ci attende un referendum, quindi toccherà a noi l’ultima parola.

Innanzitutto il metodo osservato per generare la riforma: pessimo. La creatura viene concepita durante una riunione di 40 minuti fra otto persone, dopo di che ottiene il timbro del Consiglio dei ministri. «Il governo deve rimanere estraneo alla formulazione di ogni progetto costituzionale» diceva Piero Calamandrei «se si vuole che quest’ultimo scaturisca dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana». Ma Calamandrei è morto, e nemmeno il Parlamento se la passa troppo bene. Difatti riceve il testo del governo e l’approva quattro volte senza correggerne una virgola, silente e obbediente — un episodio senza precedenti nella storia delle riforme costituzionali. L’opposizione presenta 1300 emendamenti: tutti falcidiati con la tecnica del «canguro». Fuori dalle Camere, protesta il Consiglio superiore della magistratura, con un parere di dissenso votato a larga maggioranza (24 consiglieri). L’Associazione nazionale magistrati proclama uno sciopero, con manifestazioni in 29 città. Niente da fare, la riforma passa manu militari. Tutto l’opposto del metodo rispettato in Assemblea costituente, di quel reciproco parlarsi ed ascoltarsi che rese possibile un compromesso fra partiti ben più lontani, per ideologia e caratteri, dei partitini che adesso cavalcano la scena.

E c’è poi il merito della riforma, i suoi contenuti, le novità che si prospettano. Difficile ragionarci sopra, se Forza Italia la presenta come una vendetta postuma di Silvio Berlusconi, se la premier dichiara che le nuove norme metteranno un bavaglio ai magistrati, dopo il veto della Corte dei conti al ponte sullo Stretto. Quando il potere politico usa la Costituzione per punire il contropotere giudiziario, non si può che stare dalla parte dei puniti. E dunque opporsi alla riforma, quantomeno per le sue intenzioni. Tuttavia c’è ancora chi ha occhi per guardare al testo, anziché al contesto. Il magistrato simbolo di Mani pulite — Antonio Di Pietro — si è già espresso per il sì. A sinistra, hanno assunto la stessa posizione alcuni dirigenti del Pd, da Bettini a De Luca, da Tonini a Morando. A destra, manifesta viceversa dubbi il presidente del Senato. La separazione delle carriere esiste già di fatto, ha detto La Russa: «non so se il gioco valeva la candela».

È così, in effetti. Dopo la legge Cartabia del 2022, il passaggio da una funzione all’altra (giudice e pubblico ministero), può avvenire una sola volta nel corso della carriera, e con l’obbligo di cambiare sede. Tant’è che se ne avvale l’un per cento appena dei magistrati. Del resto gli argomenti per contrastare la riforma si elidono a vicenda. C’è chi paventa il potere incontrollato delle procure, svincolate dal resto della magistratura. C’è invece chi ne teme la soggezione al potere esecutivo. Eppure in Francia, in Spagna, in Portogallo — dove sussiste la separazione delle carriere — i giudici hanno indagato i capi di governo e messo in galera un ex capo di Stato, Sarkozy. E comunque il nuovo articolo 104 della Costituzione garantisce l’indipendenza dei pm. Per scalfirla, servirebbe un’altra riforma costituzionale. Questa, dopotutto, non fa che sviluppare il principio della «terzietà» del giudice, iscritto nella Costituzione da una riforma varata dal centro-sinistra, nel 1999.

Ma in realtà il sale della riforma è altrove. Sta nel sorteggio, usato per designare tutti i membri del Csm della magistratura giudicante, del Csm della magistratura requirente, dell’Alta Corte disciplinare. Un antidoto, il più categorico e brutale, alla deriva correntizia della magistratura. Non che questo strumento offenda i principi democratici. Anzi: la democrazia nasce col sorteggio, nell’Atene del V secolo a.C. E sono innumerevoli le sue recenti applicazioni. Anche nella Carta scritta dai costituenti, circa la composizione della Consulta: nei giudizi d’accusa contro il presidente della Repubblica — stabilisce l’articolo 135 — quest’ultima viene integrata da 16 componenti estratti a sorte.

Ma il vizio sta in ciò che non dice la riforma, negli abusi che il silenzio potrebbe favorire. Chi sono i sorteggiabili? Verrà garantita la parità di genere? E l’equilibrio territoriale? Spetterà al ministro della Giustizia, a lui soltanto, l’iniziativa disciplinare contro i magistrati? E in secondo luogo il vizio sta nella radicalità di quest’intervento normativo, nella soluzione estrema che prospetta. Perché non circoscrivere l’uso del sorteggio, come avviene già per la Consulta, a una frazione del collegio? Perché espropriare totalmente i magistrati del diritto di scegliersi i propri rappresentanti? Per umiliarli, forse, per metterli in castigo. Tuttavia le azioni — diceva Maometto — verranno giudicate secondo le intenzioni.