
(di Marco Di Salvo – glistatigenerali.com) – Spesso la dannata schiera di cui faccio parte, quella dei giornalisti, si trova a usare una serie di formule ripetitive e stantie. Una di queste, negli anni passati e in questo periodo dell’anno, era quella dell’”assalto alla diligenza”. Cosa voleva dire? In sostanza che al momento della presentazione della legge di bilancio cominciavano a sfogarsi gli appetiti dei partiti e dei singoli parlamentari per far sì che una parte di quel bilancio finisse al loro elettorato, che fosse quello territoriale o quello di categoria. Da qualche anno a questa parte, questo non succede più.
Ogni fine anno si ripeteva lo stesso copione: migliaia di emendamenti parlamentari, ognuno volto a strappare un finanziamento per questa o quella categoria, da detassazioni sulle ostriche a contributi per produttori di pappa reale. Un rituale spesso indecoroso ma almeno trasparente nella sua confusione: tutti sapevano che si stava contrattando, tutti vedevano cosa veniva inserito nella manovra.
E mica c’era tutta questa urgenza di chiudere il bilancio entro il 31 dicembre. Dal 1948 al 1968 l’esercizio provvisorio è stato la regola, non l’eccezione: per vent’anni consecutivi l’Italia non riuscì mai ad approvare il bilancio in tempo. Solo nel 1969 il Governo Rumor riuscì per primo a far approvare il bilancio entro la scadenza naturale, impresa ripetuta dai governi Moro nel 1976 e Andreotti nel 1977. L’ultimo ricorso all’esercizio provvisorio risale al 1988, con il governo Goria che lo utilizzò per un trimestre. In totale, dalla nascita della Repubblica fino al 1988, questo strumento straordinario è stato utilizzato ben 33 volte.
Secondo alcuni osservatori, l’esercizio provvisorio aveva persino elementi virtuosi: visto che nel passaggio tra governo e parlamento le spese previste nella manovra si allargavano quasi inevitabilmente, autorizzare per i primi mesi dell’anno solo le spese previste inizialmente dal governo significava spesso risparmiare parecchio. Giulio Andreotti nel 2006 disse: “L’esercizio provvisorio mica è lo stato d’assedio. Può essere vantaggioso perché si può risparmiare un po’”, lui che da primo ministro ne aveva firmati ben tre.
Quanto all’assalto alla diligenza, gli episodi più folcloristici non mancano. Nel 2021 la Lega presentò, come accennato prima, un emendamento per detassare le ostriche, proponendone l’inclusione tra i molluschi con IVA agevolata al 10%, mentre aragoste e astici sarebbero rimasti tra i cibi tassati. Tra i circa 6.000 emendamenti presentati quell’anno c’erano anche richieste di sconti sugli anticoncezionali, aiuti ai produttori di pappa reale, riduzione dell’IVA sulle prestazioni veterinarie e bonus per l’acquisto di strumenti musicali. Francesco Forte, ex ministro delle Finanze, anni fa ricordava, quasi con nostalgia: “Quando la Finanziaria era una salsiccia, si faceva ostruzionismo con emendamenti pretestuosi, chiedendo dei favori in cambio della cessazione di interventi dilatori”.
Oggi assistiamo a una mutazione più subdola. L’assalto alla diligenza si è trasformato in un teatro dell’assurdo dove si discute per settimane di tagli e aumenti di tasse senza che esistano dati specifici su cui ragionare. Il nuovo rito prevede l’approvazione finale con un maxi-emendamento votato spesso sotto fiducia, che nasconde alla pubblica opinione – e spesso agli stessi parlamentari – le decisioni realmente prese.
Il paradosso più grande emerge dalle analisi degli economisti: si passa settimane a discutere di riforme fiscali e tagli alla spesa, ma i documenti programmatici mancano sistematicamente di “informazioni sufficienti per avanzare valutazioni sulle singole misure”. Il Piano Strutturale di Bilancio parla genericamente di “riduzione del carico fiscale” e “sostegno alla natalità” senza specificare come e con quali coperture. Persino voci cruciali come le “altre entrate” che dovrebbero garantire 9 miliardi di euro rimangono misteriose. Quindi tutte le polemiche di questi giorni sono una sorta di simulazione, un assalto senza diligenza.
Questa deriva ha radici anche nelle nuove regole europee. Il Patto di Stabilità riformato, entrato in vigore nell’aprile 2024, impone piani strutturali di bilancio settennali basati sulla traiettoria della “spesa primaria netta”, un indicatore tecnico che pochi comprendono. I governi devono presentare previsioni di lungo periodo che sono, per definizione, esercizi teorici più che strumenti operativi. L’enfasi è sul contenimento della spesa e sul rientro dal deficit, mentre gli investimenti per la produttività finiscono schiacciati dai vincoli contabili.
Il risultato è una democrazia di bilancio svuotata. Non più l’indecoroso ma vitale scontro sulle priorità di spesa, ma una discussione astratta su parametri finanziari seguita da decisioni prese in extremis e nascoste tra le pieghe di emendamenti omnibus. L’assalto alla diligenza era rumoroso e imperfetto, ma almeno si vedeva chi prendeva cosa. Oggi il bilancio dello Stato viene deciso nell’ombra, con la scusa della governance europea e dell’efficienza procedurale. Una conquista della tecnocrazia, una sconfitta della trasparenza democratica.
Poi uno si chiede come mai la qualità della stampa italiana sia bassa.
“….traiettoria della “spesa primaria netta”, un indicatore tecnico che pochi comprendono.”
Pochi lo comprendono, ma lui si guarda bene dallo spiegarlo, almeno in modo semplificato, perchè è un concetto difficilissimo
Spesa primaria netta= Spesa totale dello Stato- Interessi sul debito.
È quanto lo Stato spende per funzionamento, investimenti e trasferimenti, escludendo gli interessi sul debito.
La parola netta indica che si sottraggono alcune voci, come entrate destinate a coprire specifiche spese ( vedi armi), o trasferimenti interni tra enti pubblici, per evitare di contare due volte lo stesso denaro.
In maniera altrettanto semplice vediamo di parlare del Patto di Stabilità
Se io sono indebitato fino al collo non vado in vacanza, non vado a mangiare al ristorante, mi concentro sul risanamento e magari faccio un qualche investimento che mi aiuti a ripianare la posizione debitoria.
I miei familiari non saranno contenti di tale scelta e se fossero delle persone scriteriate si chiederebbero se io sto cercando di sanare una determinata situazione o se sono un sadico che impedisce loro di andare in vacanza o andare fuori a mangiare.
Siccome non sono persone scriteriate, soffrirebbero ma se ne farebbero una ragione.
Ritorniamo all’articolo in quanto il Patto di Stabilità riformato è davvero il cuore della questione, perché tocca sia la sovranità economica degli Stati che la trasparenza democratica nei processi di bilancio.
L’articolo lo descrive bene: dice che il nuovo Patto, in vigore da aprile 2024, impone ai governi di preparare piani settennali di bilancio basati su un indicatore tecnico, la spesa primaria netta, e che tutto diventa un esercizio teorico più che operativo. Il risultato ,secondo l’autore, è una “democrazia di bilancio svuotata”, dove la politica discute di numeri astratti mentre le scelte reali vengono prese altrove.
Bisognerebbe però porsi una domanda: questa evoluzione verso una governance europea più rigida e tecnocratica è una necessità per garantire stabilità finanziaria, oppure una forma di espropriazione politica che riduce la capacità degli Stati di decidere per conto dei propri cittadini?
Se la capacità degli stati fosse dettata dal buon senso e non da scelte politiche che col buon senso non sempre hanno a che fare la potrei considerarla un forma di espropriazione politica; ma siccome in Italia e non solo la spesa disfunzionale è diventata quasi la norma allora ritengo che sia una necessità per garantire la stabilità finanziaria.
In effetti, la logica del nuovo Patto parte proprio da questo presupposto: gli Stati, lasciati completamente liberi, tendono a indebitarsi troppo, spesso non per investimenti produttivi, ma per spesa clientelare o di consenso.
Da qui l’idea di mettere una “camicia di forza tecnica” come la regola sulla spesa primaria netta, che limiti l’espansione della spesa al di là delle entrate strutturali.
Il rovescio della medaglia è che questa disciplina è non tiene conto della qualità della spesa.
Tagliare la spesa corrente improduttiva è sacrosanto; ma tagliare anche gli investimenti in istruzione, innovazione o transizione ecologica per rispettare un parametro contabile diventa autolesionista. È qui che nasce la critica alla “tecnocrazia del bilancio”
La politica di rigore non è europea, è di puro buon senso; il rigore non è un’imposizione esterna, ma una conseguenza logica della realtà.
Quando un Paese ha un debito elevato, la prima responsabilità è riconoscere il vincolo, non cercare di aggirarlo o di attribuirlo a Bruxelles.
E qui arriviamo al sunto dell’articolo: Il rigore non è educativo perché non nasce da un convincimento, ma da un vincolo; e un vincolo, se non è interiorizzato, genera soltanto compliance formale e creatività contabile.
A mio avviso le ragioni sono
Le deroghe: lo stesso sistema europeo prevede margini di flessibilità (cicli economici, investimenti strategici, emergenze), e ogni volta che c’è spazio per derogare, la pressione politica interna spinge per usarlo fino all’ultimo centesimo. Quindi il rigore diventa elastico, creativo, non strutturale.
La bassa cultura economica: L’idea diffusa che “i soldi pubblici non sono di nessuno” o che si possano sempre “trovare le coperture” è figlia di un analfabetismo economico che attraversa partiti, amministrazioni e cittadini.
La radice storica della spesa disfunzionale: è un modello di gestione costruito in decenni, dal dopoguerra in poi, dove la spesa pubblica ha fatto da strumento di coesione sociale e di stabilità politica. In pratica, un Paese che ha usato la spesa come anestetico per evitare conflitti reali.
La conseguenza oggi è che il rigore, senza una cultura che lo sostenga, produca solo austerità senza riforme cioè tagli lineari invece di selezione intelligente della spesa.
Se vogliamo che lo Stato torni a spendere in modo sensato, occorre guardare in faccia la realtà: il rigore è doloroso, ma preferibile allo sfascio dei conti.
Chi vuole che l’Italia continui a spendere senza criterio sta applaudendo al disordine, non alla democrazia.
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