Colpi di scena, scambi di ruolo, sconfessioni, tradimenti, posizioni rinnegate, riproposte, ri-rinnegate. Il rapporto tra il presidente americano e il capo del Cremlino a tratti sembra fatto di ripicche tra amanti delusi, il cui ultimo capitolo sono le sanzioni al petrolio russo. Ma anche se i due si punzecchiano, pure con aghi aguzzi, non sembrano per nulla intenzionati a rompere sul serio

Vladimir Putin e Donald Trump

(Gigi Riva – editorialedomani.it) – È assai significativo lo scambio di battute a distanza tra Trump e Putin che, come un romanzo a puntate, procede tra colpi di scena, scambi di ruolo, sconfessioni, tradimenti, posizioni rinnegate, riproposte, ri-rinnegate. Sino a sembrare ripicche tra amanti delusi. Che, nell’ultimo episodio, sono arrivati alfine al solito tema: i soldi. Nessuna questione di principio, nessun valore, nessuna visione strategica, nessuna considerazione geopolitica, ma solo la prosaicità del vil denaro. Del resto il terreno che il tycoon più predilige.

Ha cominciato Donald Trump quando ha appreso dal suo segretario di Stato Marco Rubio che sull’altro fronte Sergej Lavrov, il ministro della Difesa russo, non è disposto a scendere a compromessi. Mosca vuole tutto il Donbass, anche la fetta non ancora conquistata sul terreno, non gli basta per una tregua il congelamento della situazione del campo.

L’eventuale colloquio tra i leader a Budapest si prefigurava dunque come la riedizione di Anchorage a metà agosto: una figuraccia planetaria per l’uomo a caccia del premio Nobel per la pace così credulone da fidare sui buoni propositi dello zar, il quale nel contempo stava dando il via al più massiccio attacco con droni e missili su Kiev e mezza Ucraina, obiettivi civili compresi. Avrebbe rafforzato, Trump, la convinzione di essere lo zimbello manipolabile, totalmente in balìa di uno scafato politico non a caso al potere al Cremlino dall’ultimo giorno del millennio scorso.

Dunque nonostante la corrispondenza d’amorosi sensi più volte ribadita, l’indulgenza a lungo manifestata, chi sta alla Casa Bianca non può permettersi un altro schiaffo violento in faccia da qualunque antagonista. Ha dunque disdetto e poi più prudentemente “rimandato” il volo in Ungheria. E ha cercato di colpire l’avversario dove crede gli faccia più male: ha imposto sanzioni sul petrolio russo, in particolare la Rosneft e la Lukoil, i due colossi che, insieme, fanno più della meta del greggio esportato. Inducendo da subito Cina e India, ad esempio, a rallentare gli acquisti.

Putin ha fatto spallucce, commentato che il provvedimento non inciderà più di tanto sulla sua economia. Trump ha ribattuto notando che magari non succederà subito ma in sei mesi si sarebbero pesate le conseguenze negative. Putin ha voluto avere l’ultima parola facendo intendere che saranno magari i consumatori americani a pagarne le conseguenze perché il prezzo del greggio, con queste sanzioni, è determinato a salire.

Trump non dovrebbe sottovalutare l’ammonimento dell’ex agente del Kgb, il quale sottolinea un elemento a suo vantaggio competitivo. Che è poi la differenza esistente tra una democratura e una democrazia. È vero che i proventi dei prodotti energetici sono vitali per le spese di guerra che Mosca affronta da tre anni e mezzo. Ma è altrettanto vero che le sanzioni adottate fino adesso poco o nulla hanno inciso. Il popolo russo è abituato ai sacrifici.

Non solo: decenni di mano pesante contro qualunque tipo di opposizione hanno fiaccato le proteste. E ci fosse da stringere ulteriormente la cinghia, lo farebbe come è successo tante altre volte in passato non essendo accettato alcun tipo di dissenso verso il comandante in capo, peraltro difficile da ipotizzare dopo la lunga riduzione dei cittadini a sudditi. Non così negli opulenti Stati Uniti, dove l’andamento dell’economia, gli aumenti dei prezzi di generi fondamentali come la benzina pesano sulla valutazione dei politici. E le elezioni di midterm sono soltanto tra un anno.

Le piroette di Trump sono ovviamente destabilizzanti anche per il terzo incomodo e diretto interessato Volodymyr Zelensky, il quale ha dovuto comprendere sulla sua pelle di non essere il favorito al cospetto del re di Washington, ma solo il fantasma agitato agli occhi di Putin per cercare di forzargli la mano e portarlo finalmente al tavolo di una trattativa e non di una resa incondizionata.

Lo stesso Putin non pare così insensibile agli umori ondivaghi di Trump se la sua reazione non è stata così smodata come quella nei confronti dell’Europa. Ha cercato un linguaggio più sarcastico, ma in qualche modo più conciliante non escludendo che si faccia comunque il summit tra i leader. Insomma, i due si punzecchiano, anche con aghi aguzzi, ma non sembrano per nulla intenzionati a rompere sul serio.