Superato Craxi, ora per raggiungere Berlusconi in testa alla classifica mancano ancora 400 giorni. Primi solo governi di centrodestra

 Camera dei deputati

(di Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – Il governo di Giorgia Meloni entra nel palmares dei governi più longevi e il pensiero, più che all’impresa in sé, corre a questa classifica in perenne mutamento, per cui il potere si misura con la durata agonistica prima che sui risultati concreti o sulla stabilità.

In cima, come record da battere, restano il Berlusconi bis, formatosi di slancio dopo la vittoria del 2001, poi via via appannatosi fino a duplicarsi in un governicchio terminale; e il Berlusconi quater, che partì alla grande, sull’onda quasi eroica del predellino, ma poi perse la spinta, inciampò e infine soffocò per l’abbandono di Fini, fino a produrre la più lunga agonia della storia repubblicana con il divorzio da Veronica, 2008, gli scandali sessuali, i “volonterosi” di Scilipoti e Razzi, il disastro economico, il commissariamento da parte del presidente della Repubblica Napolitano, il disastro dell’economia e dello spread, le liti con Tremonti, la lettera della Bce, le risatine di Merkel e Sarkozy e infine l’Alleluja suonato la sera delle dimissioni del Cavaliere dall’orchestra di “Resistenza democratica” a piazza del Quirinale, novembre 2011.

A riprova che i governi possono anche vincere la gara di durata, ma bisogna pure vedere come, perché al dunque la vera gloria è breve e non di rado finisce con l’amarezza. Eppure, fino all’ultimo, Berlusconi ci teneva assai al suo record. Appena mollata la spugna, in un estremo colloquio con Mario Calabresi, tra una lamentazione e l’altra, esausto e svociato, trovò il modo di dire: «Mi resta però una consolazione: quella di essere stato il premier più longevo della Storia». Calabresi lo interruppe: se arrivava alla fine della legislatura avrebbe battuto Giolitti: «Ma io intendevo della storia repubblicana». Poi tacque un attimo: «Questa di Giolitti non la sapevo. Peccato, peccato davvero. Vabbè, buonanotte».

Meloni ha superato Bettino Craxi, che adesso scivola al quarto posto. Anche nel suo caso è impossibile, oltre che ingiusto, fare una comparazione, troppo diversi i tempi. Se le velleità di Berlusconi, che oltretutto era fissato con i numeri, rientrano nel novero dei vezzi della Seconda Repubblica, la durata di Craxi avvenne in forme più decise e insieme soffuse, com’era nei codici della Prima. Nel senso – sembra incredibile al giorno d’oggi – che mai il leader-presidente se ne vantò o lo fece pesare. L’ego dei capi, pure disponendone Bettino di uno all’altezza della sua gigantesca mole fisica, non contava, o meglio non doveva figurare, sarebbe stato disdicevole compiacersi pubblicamente o vantarsi del traguardo, meno che meno predisporre un ciclo di celebrazioni. Chi governava, di solito per poco tempo, non lo faceva per sé, ma con il permesso dei partiti, allora vivi e vegeti, talvolta fin troppo.

Siamo davvero molto lontani da quegli anni nei quali le percentuali dei votanti superavano il 70-80 per cento. Oggi, in buona sostanza, si governa con l’idea che l’azione dell’esecutivo porti il rapido ed effimero consenso della propria tifoseria, per non dire tribù, e corrisponda al fare bella figura. Berlusconi, con cui cominciò quest’andazzo, non mancava di ricordare a tutti il suo valore anche al di là della politica. L’essere al primo posto quanto a durata confermava il ruolo magico, la concezione megalo che si assegnava e che trovava compiuta sintesi nell’espressione “numero uno”. Una volta, grazie a un fotografo che riprese la sua agenda, si scoprì che se lo scriveva da solo, attribuendosi questo titolo: «Io sono il Numero uno» – e forse lo era pure, ben oltre il punto di vista contabile, ma oggi è difficile ripensare ai suoi governi partendo dalle realizzazioni lasciate in eredità al suo paese, l’abolizione dell’Ici, la patente a punti, robetta.

Meloni no. Le manca, nel suo odierno primato, la necessitata ritrosia di Craxi e il plateale narcisismo del Cavaliere. Da quel che ogni tanto le scappa di bocca si capisce che vive Palazzo Chigi come un sacrificio («la mia prigione», «è come lanciarsi tutti i giorni col paracadute»). Però è anche parecchio enfatica, più che spesso tira in ballo la Storia, sua e della sua comunità, a lungo reietta, che oggi la adora come una divinità.

Non era affatto scontato che con un governo di destradestra entrasse in classifica. Sul perché ci sia riuscita la ricognizione sarebbe fin troppo ampia, ma al dunque gioca l’inattendibilità di qualsiasi alternativa, la crisi profonda di una sinistra che non sa più nemmeno fare un’opposizione come si deve. Poi sì, certo, a destra litigano, ma al dunque tra lei e loro c’è un abisso addirittura riconosciuto dagli stessi galletti leghisti ed ex berlusconiani; a sinistra non si capisce bene chi vuole che cosa, e da un po’ sembra che nemmeno litighino più. Intanto il campionato continua, l’unica consolazione è che non si può sapere in che modo.