E’ neccessaria per combattere l’astensionismo

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Dal premierato al premierino. Per il primo obiettivo occorre cambiare la Costituzione, con tutte le insidie del caso, a partire da un referendum che chissà come va a finire. Per il secondo basta cambiare la legge elettorale. Facile, se hai una maggioranza blindata in Parlamento. E poi la riforma della riforma elettorale è il nostro sport nazionale. I tedeschi mantengono lo stesso sistema dal 1956, i francesi dal 1958, gli inglesi da tre secoli e passa. Invece lo Stato italiano ha esordito con un maggioritario, sostituito nel 1882 da un proporzionale, sostituito nel 1891 da un maggioritario, sostituito nel 1919 da un proporzionale, sostituito nel 1923 da un maggioritario, sostituito nel 1946 da un proporzionale. Dopo di che ci siamo inventati un «maggiorzionale» (un sistema che è un po’ donna, ma anche un poco uomo) declinato in varia guisa, e appellato con i latinetti del liceo: Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum. Risultato: altre 6 leggi elettorali dal dopoguerra in poi.

Sicché adesso ci risiamo. Il lieto annuncio proviene dalla massima autorità politica del Paese (Giorgia Meloni) sul massimo altare della Rai (Porta a porta, 7 ottobre). Dunque gli operai s’industriano attorno a una nuova legge elettorale; ma quale, come, perché? Qui bisogna distinguere fra pensiero e retropensiero. Il pensiero espresso dalla presidente del Consiglio è questo: siccome la riforma del premierato langue, intanto ci portiamo avanti col lavoro, fabbricando una legge che imporrà l’indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale. Così incassiamo il nostro bottino costituzionale, senza esporci ai rischi del referendum.

Quanto al retropensiero, non è troppo difficile intuirlo: noi abbiamo una coalizione salda, stabile, coesa; loro invece s’azzuffano come galli in un pollaio. Se li costringiamo a decidere la leadership prima del voto, magari misurandosi con elezioni primarie che li metterebbero l’uno contro l’altro, la baruffa diventerà una rissa. Però non si sa mai, forse hanno imparato la lezione. Nel 2022, grazie alla strategia di Enrico Letta che rifiutò ogni alleanza con i 5 Stelle, la sinistra si è presentata divisa nei collegi uninominali, dove s’assegna il 37 per cento dei seggi. Conclusione: ne guadagnò appena 7 al Senato, 14 alla Camera; mentre la destra ne ottenne, in tutto, 180. E allora, per evitare che stavolta la sinistra si compatti, con la prossima legge elettorale togliamo anche i collegi, non se ne parli più.

Se il piano è questo, ai musicisti sarà utile qualche osservazione. Lasciamo perdere le lezioni del passato, dato che finora chi ha ordito nuove leggi elettorali per tirare uno sgambetto all’avversario è poi finito gambe all’aria: per dirne una, nel 2006 avrebbe rivinto Berlusconi, se lui si fosse tenuto il Mattarellum. Lasciamo stare pure le regole europee, che tanto da noi valgono poco: secondo la Commissione di Venezia — organo consultivo del Consiglio d’Europa — non si può cambiare la legge elettorale nell’ultimo anno della legislatura, e ormai quasi ci siamo. Ma il problema sono le aporie, le contraddizioni logiche di questo colpo d’ingegno.

Primo: la riforma costituzionale rende obbligatorio «un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza» al premier (articolo 92). Il loro progetto non può garantirla. E dunque, se la riforma approda in porto ma nel frattempo è già stata timbrata una nuova legge elettorale, che fai, la cambi daccapo? Secondo: se quest’ultima serve a introdurre surrettiziamente il premierato, senza correggere la Costituzione d’una virgola, la legge è incostituzionale. Altrimenti è inutile. Terzo: se l’innovazione costringe la sinistra alle primarie, a destra come si decide? Fin qui loro hanno osservato una regola precisa: governa il leader del partito più votato. Però questo lo sai dopo, non prima delle elezioni. Quindi come fai? Ti basi sui sondaggi, sostituendoli al responso delle urne? Scegli in base ai successi precedenti? Ma una volta il partito più votato era Forza Italia, poi fu il turno della Lega di Salvini, poi ancora dei Fratelli di Giorgia Meloni. I viaggi nel tempo sono sempre una gimkana. E allora non resta che una soluzione: primarie (e zizzania) pure a destra. L’eterogenesi dei fini.

Ma in ultimo la domanda è un’altra: serve davvero una nuova legge elettorale? Sì, ma non per le ragioni illustrate (o nascoste) dalla premier. Serve per motivare gli elettori (nelle due consultazioni più recenti, in Calabria ha votato il 43%, in Toscana meno del 48%: minimo storico, in entrambi i casi). E per motivarli, per contrastare l’astensionismo che sta intossicando la democrazia italiana, bisogna sconfiggere il monopolio dei partiti sugli eletti, la decisione su chi potrà sfoggiare i galloni da parlamentare. Un doppio scandalo che si perpetua dalla legge n. 270 del 2005, approvata durante l’agonia del secondo governo Berlusconi. In primo luogo, pluricandidature: cinque nella parte proporzionale, oltre alla candidatura di collegio. Una truffa, quando Tony Blair fu sempre eletto nel collegio di Sedgefield, senza paracadute. In secondo luogo, liste bloccate, su cui l’elettore non può mettere becco. E allora sbarazziamocene: è questa l’urgenza, è questa l’emergenza.