L’attentato al giornalista Rai è un attacco al diritto dei cittadini di sapere, capire e scegliere con consapevolezza. Proprio otto anni fa un’altra cronista, la maltese Daphne Caruana Galizia, fu uccisa da un’autobomba

(di Lirio Abbate – repubblica.it) – C’è una linea che non dovrebbe mai essere superata in una democrazia. Una linea che separa il dissenso dal ricatto, la critica dall’intimidazione, la libertà dall’imposizione del silenzio. Quella linea è stata infranta con il fragore dell’esplosione che ha distrutto due auto di Sigfrido Ranucci, davanti alla sua abitazione.
Un ordigno carico di un messaggio preciso che vorrebbe imporre lo stop al racconto e alle notizie documentate. Una minaccia che non parla solo a lui. Parla a tutti noi. Parla ai giornalisti, ai cittadini, a chi ancora crede che il dovere dell’informazione sia quello di illuminare le zone d’ombra dove crescono le consorterie criminali e gli affari sporchi del potere.
Siamo davanti a un salto di qualità nel linguaggio della sopraffazione. Non è più solo la delegittimazione quotidiana, il fango mediatico, la macchina orchestrata per screditare. Qui siamo al ritorno dell’esplosivo. Alla logica del terrore. A un messaggio mafioso che non ha bisogno di firma, perché chi deve capire ha già capito.
Il segnale oscuro
Succede tutto nel giorno dell’anniversario dell’assassinio di Daphne Caruana Galizia. Coincidenza? Forse. Ma come ogni coincidenza, anche questa ha un sapore amaro. È un avvertimento che suona come una lezione sinistra: chi cerca la verità, chi indaga, chi espone le complicità tra crimine e potere, può saltare in aria.

Il bersaglio è Sigfrido Ranucci, certo. Ma è anche il mestiere che incarna: il giornalismo d’inchiesta. Il giornalismo che fa domande scomode, che non si accontenta dei comunicati stampa, che apre i fascicoli chiusi e legge tra le righe dei poteri.
È un attacco al servizio pubblico. E, di riflesso, è un attacco alla democrazia.
Colpire un giornalista significa colpire il diritto dei cittadini a sapere, a capire, a scegliere con consapevolezza. Chi incendia, chi minaccia, chi fa esplodere, non vuole solo spaventare: vuole imporre l’oscurità. Far tornare il buio su quelle trame che la stampa libera tenta ogni giorno di portare alla luce.
La zona grigia
L’Italia è un Paese che ha conosciuto questa notte troppe volte. La stagione delle bombe, degli omicidi eccellenti, dei cronisti uccisi per aver raccontato e documentato. Ma pensavamo, o volevamo pensare, che fosse alle spalle. Non lo è. C’è una zona grigia, più viva che mai, dove illegalità, potere e complicità trovano ancora terreno fertile. È lì che il giornalista diventa un nemico da zittire. È lì che Ranucci, e come lui tanti altri cronisti con la schiena dritta, sono percepiti come minaccia. Non perché mentono. Ma perché raccontano. Perché documentano. Perché mostrano, nomi alla mano, volti, documenti, intrecci.
La libertà d’informazione, oggi, è sotto attacco non solo con le bombe, ma anche con le querele temerarie, con l’isolamento istituzionale, con la campagna di delegittimazione sistematica. Non è un caso. È un disegno.
Chi vuole far tacere i giornalisti, chi li vuole intimiditi o “collaborativi”, non teme solo la notizia. Teme il giornalismo come presidio etico, come funzione democratica, come strumento di controllo. Teme che qualcuno spieghi ai cittadini dove finiscono i loro soldi, chi decide davvero, quali poteri si muovono nell’ombra. Teme la verità, in una parola.
La comunità silenziosa
Non c’è solo Ranucci. Ci sono decine di giornalisti minacciati ogni anno in Italia. Molti sono giovani, sconosciuti, precari. Lavorano da soli, senza tutele, spesso in piccoli centri, dove mafie, camorre e poteri locali sono radicati come alberi antichi. Subiscono intimidazioni, aggressioni, lettere anonime, minacce ai figli. Eppure resistono. E continuano a raccontare.
Sono la parte più preziosa dell’informazione italiana. Sono l’eredità viva degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo nel nostro Paese. Un’eredità che non si celebra solo nei convegni, ma si difende ogni giorno garantendo tutele, risorse, protezione.
Una reazione che non può attendere
Non può bastare la solidarietà. Serve una reazione vera, urgente, all’altezza del pericolo. Lo Stato ha il dovere, oggi più che mai, di mostrare che chi tocca un giornalista, tocca un pezzo della Repubblica. Che chi prova a imbavagliare, troverà una risposta compatta, determinata, implacabile.

Serve che i mandanti e gli esecutori dell’attentato a Ranucci siano individuati, processati, condannati. Serve che il Parlamento metta mano alle leggi che ancora oggi permettono a criminali e potenti di zittire l’informazione a colpi di carte bollate. Serve che il servizio pubblico sia difeso come un bene comune e non come un fastidio da depotenziare.
Difendere chi racconta non è un atto di generosità. È un dovere civile. Perché oggi, come sempre, un’informazione libera è la prima barriera contro l’arbitrio e l’abuso. E allora, al fianco di Ranucci, ci siamo tutti. Con lui, con ogni cronista che non ha smesso di fare domande, anche quando il mondo intorno preferisce non sentire. Perché la libertà, quella vera, comincia proprio lì: dove qualcuno sceglie di raccontare ciò che altri vorrebbero tenere nascosto. Anche a costo della propria vita. E non c’è bomba che possa cambiare questo.
“Molti sono giovani, sconosciuti, precari. Lavorano da soli, senza tutele..”
Onore a loro. Speriamo ricevano il buon esempio dai cronisti anziani, noti e molto ben pagati. E con parecchie tutele.
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Notevole come peraltro questi giornalisti non se li fili proprio il mainstream.
Per esempio TELE IATO siciliana (quella di Pino Maniaci).
Santoro, che faceva tante trasmissioni contro la mafia, poteva collaborare con loro?
Macché!
I soliti inviati, i soliti servizi, le solite cose.
Decine di giornalisti che nel Sud Italia rischiano di brutto continuano ad essere totalmente ignorati da Roma in sù.
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Ora, se le parole di solidarietà del governo non fossero frasi fatte pronunciate a favore di telecamera giusto salvarsi la faccia, la Rai (che è governativa) dovrebbe raddoppiargli le puntate, raddoppiargli i mezzi e le risorse. Così farebbe vedere a questa gente che con la violenza e l’intimidazione otterranno l’opposto di quello che si prefiggevano. E anzi se sono arrivati a tanto è perché Ranucci e la sua squadra hanno colto nel segno, e quindi insistete ragazzi, l’Italia è con voi.
Ma è tutto un sogno. Frasi fatte a parte, non muoveranno un dito e Ranucci rimarrà il solito rompicoglioni da zittire un po’ alla volta. Almeno fino a che gli attentatori non lo zittiranno del tutto.
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