Il Medio Oriente entra in una nuova fase in cui la guerra preventiva non scompare: cambia forma, linguaggio e strumenti

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – In Medio Oriente la parola “pace” non ha mai avuto un significato neutro. Ogni tregua, ogni cessate il fuoco, ogni trattativa porta con sé la consapevolezza che non si tratta di un punto d’arrivo, ma di un equilibrio provvisorio, fragile e reversibile. L’accordo recentemente imposto da — un compromesso più che una mediazione — non fa eccezione. È una tregua che si regge sul silenzio delle armi, non sulla ricomposizione delle cause del conflitto. In altre parole: si è fermato il rumore delle bombe, non la logica che le aveva rese inevitabili.

Dietro la firma di Washington si cela una pace “per modo di dire”, in cui la strategia della guerra preventiva non viene abbandonata ma congelata, pronta a riemergere al primo segnale di debolezza. Israele conserva la libertà d’azione, l’Iran riorganizza le proprie reti regionali e l’Europa, ancora una volta, osserva e tace.

L’eredità della guerra preventiva

Per anni la dottrina israeliana si è basata su un principio semplice e brutale: colpire prima di essere colpiti. Una prassi consolidata che ha trovato giustificazioni politiche, strategiche e, sempre meno, giuridiche. Raid contro basi iraniane in Siria, attacchi mirati contro comandanti di milizie, omicidi di scienziati nucleari, incursioni periodiche in Libano e Gaza. Questa logica ha avuto due effetti immediati: impedire agli avversari di consolidare le proprie capacità militari e normalizzare, agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, una forma di guerra permanente a bassa intensità.

Con l’accordo imposto da Trump, questa dottrina non scompare: semplicemente si traveste. La retorica della “difesa preventiva” lascia spazio a un linguaggio diplomatico calibrato, ma i margini di manovra restano intatti. Israele mantiene il diritto unilaterale di intervenire contro “minacce emergenti”, mentre agli attori regionali viene chiesto solo di evitare risposte troppo vistose che possano compromettere la tregua. È la pace come anestesia, non come soluzione.

Il teatro regionale dopo la tregua

Sul terreno, la situazione resta tesa. In , la crisi umanitaria non si è risolta: è stata semplicemente messa tra parentesi. Migliaia di famiglie vivono ancora in condizioni precarie, mentre i fondi per la ricostruzione arrivano lentamente e vengono filtrati attraverso meccanismi di controllo politici e militari. In , non ha smantellato il suo arsenale, ma ha sospeso le operazioni dirette per calcolo strategico. In , i raid mirati contro infrastrutture e depositi di armamenti continuano sotto traccia, coperti da un linguaggio diplomatico che parla di “incidenti limitati” e “azioni difensive”.

L’Iran, da parte sua, sta utilizzando questa pausa per consolidare le proprie vie di approvvigionamento e intensificare i rapporti con Russia e Cina. La cosiddetta “profondità strategica” iraniana non è stata colpita al cuore: è stata riorganizzata, decentralizzata, resa più elusiva.

L’Europa nel ruolo di spettatore

E poi c’è l’Europa. Un continente che un tempo cercava di rappresentare una terza via tra blocchi contrapposti, e che oggi non riesce più a imporre alcuna visione autonoma. La diplomazia europea non detta le regole: le subisce. Parla di diritto internazionale mentre altri decidono quando sospenderlo e quando riattivarlo. Si trincera dietro dichiarazioni umanitarie, ma resta ai margini delle scelte strategiche.

Il nuovo accordo di Trump ha confermato questa irrilevanza. I governi europei sono stati informati, non consultati. Hanno applaudito la tregua senza avere alcuna leva per influenzarne i contenuti. Ancora una volta, la sicurezza energetica e la paura dell’instabilità hanno prevalso su qualunque tentativo di politica estera autonoma.

L’ordine giuridico svuotato

La pace attuale è costruita sull’erosione del diritto internazionale. La guerra preventiva, pur non essendo prevista da alcuna norma, è stata di fatto accettata come strumento legittimo. Questo crea un precedente che va ben oltre il Medio Oriente. Se oggi Israele può rivendicare il diritto di colpire per prevenire, domani altri Stati — in Asia, in Africa, persino in Europa — potranno invocare lo stesso principio per giustificare atti unilaterali. È un indebolimento strutturale delle regole globali che trasforma l’eccezione in consuetudine.

La diplomazia, in questo contesto, non costruisce ponti ma gestisce pause. I negoziati non risolvono il conflitto, ma lo congelano. Le potenze regionali accumulano armi e risorse, in attesa di una nuova finestra di opportunità per riprendere la partita.

I Paesi arabi e la resa silenziosa

Il fronte arabo ha mostrato, ancora una volta, la sua debolezza politica. Nonostante la devastazione di Gaza e la pressione popolare, nessun governo ha assunto una posizione realmente incisiva. Molti Paesi temono il ritorno del caos e preferiscono una tregua imposta che un conflitto aperto. Ma questa scelta ha un prezzo: lasciare campo libero a Israele e all’Iran, che definiscono i tempi e i modi della crisi.

La loro neutralità silenziosa li rende irrilevanti e, di fatto, spettatori di uno scontro che si svolge sopra le loro teste ma determinerà anche il loro futuro.

Trump, l’arbitro imperfetto

Donald Trump non è un mediatore tradizionale. Non ha cercato di risolvere il conflitto, ma di trasformarlo in un equilibrio che rafforzi la posizione americana nella regione. La sua “pace” non nasce da un negoziato multilaterale ma da una logica di potenza. Washington detta i tempi, gli altri eseguono. Israele ottiene margini di libertà operativa, l’Iran compra tempo, i Paesi arabi evitano di schierarsi, l’Europa applaude.

Questo assetto è instabile per definizione: tiene solo finché conviene a tutti. Un singolo episodio — un raid fuori scala, un errore di calcolo, un attacco di milizie non controllabili — può far saltare tutto.

Il vuoto della Francia e la resa diplomatica europea

La Francia rappresenta bene questa crisi di ruolo. Un tempo Parigi aveva la forza e la volontà di costruire posizioni autonome, come ai tempi di . Oggi si limita a seguire le onde. La politica estera francese, come quella europea, è paralizzata da due fattori: la dipendenza energetica e la mancanza di strategia mediterranea. Ciò che resta è un discorso umanitario senza muscoli, incapace di modificare la realtà.

Un Medio Oriente in equilibrio instabile

La tregua firmata da Trump ha congelato il conflitto ma non lo ha risolto. Gli attori armati restano armati. Le alleanze restano tattiche. Le potenze esterne continuano a definire le regole. Il diritto internazionale resta sospeso. Gli equilibri si reggono su calcoli militari, non su soluzioni politiche.

La “pace armata” non è un nuovo ordine: è un interludio. Un tempo sospeso in cui ognuno si prepara alla prossima mossa. Ed è proprio questo a renderla pericolosa: perché dietro la calma apparente si accumulano tensioni, armi e vendette sospese.

Il Medio Oriente resta una regione in cui la guerra preventiva non è stata sconfitta, ma soltanto silenziata. E in questa silenziosa attesa si misura il fallimento della politica internazionale.