Il vertice UE di Copenaghen, tra rilanci e buone intenzioni, non scioglie i nodi su difesa, sicurezza e leadership.

(di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – La guerra non è mai stata il pane quotidiano della generazione cresciuta in tempo di pace, tra MTV e cartoni animati, diritti civili e illusioni di progresso. Non c’è traccia, nei nostri anni formativi, di un culto della guerra elevato a mito fondante. Al massimo, per chi è cresciuto con Lady Oscar e la Stella della Senna, la guerra è rimasta una scenografia di rivoluzioni in costume — carrozze, salotti, Bastiglia — senza mai sposare davvero la filosofia di monsieur de Guillotin. La violenza, per noi, è sempre stata un racconto da tenere a distanza.
Eppure, da qualche tempo, la guerra — quella vera — ci ronza attorno come un maledetto nido di vespe ingrifate. Sembra davvero di vivere in un tempo sospeso. Non è il caso di scomodare paragoni troppo arditi con epoche passate, ma è difficile non notare come quel futuro luminoso che ci era stato promesso da bambini, sia adesso lontano anni luce. Al contrario, ogni mattina ci svegliamo immersi in un’aria pesante — sentimento diffuso tra le persone che incrociamo, un clima saturo di tensione, pensieri distorti e parole spigolose. La polarizzazione è ovunque. Ci circonda. Si percepisce a pelle, anche in una semplice fila dal panettiere. Difficile fare i gentili quando il mondo tutto intorno a te ha deciso di difendere ogni centimetro del suo spazio.
E l’impressione della guerra di tutti contro tutti — che pensavamo di esserci lasciati alle spalle con l’Illuminismo della ragione — è tornata viva e vegeta fra noi, con l’immagine del vecchio Leviatano che ci spia dal buco della serratura di un Grande Fratello globale.
Male. Non tanto per noi, che la giovinezza l’abbiamo vissuta in piena libertà, in un mondo che — ingenuamente, forse — sembrava aver archiviato per sempre i suoi tempi bui. Male, piuttosto, per i nostri figli. Perché a loro dobbiamo garantire almeno quanto abbiamo avuto noi: un’infanzia serena, un’adolescenza libera, la possibilità di crescere senza il peso costante della paura, della tensione, dell’incertezza.
Ma ciò che più ci inquieta — dettaglio tutt’altro che marginale — è il cambio di registro della nostra cara vecchia Europa. Una svolta muscolare, fatta di denti digrignati e posture assertive, che non si vedeva dai tempi della guerra in Jugoslavia. L’Europa che conoscevamo — quella dei trattati, delle mediazioni, delle conferenze stampa — sembra oggi parlare una lingua diversa. Più dura, più decisa, più marziale.
L’Europa si trova oggi in una fase di transizione profonda, quasi febbrile. Le tensioni aumentano, gli equilibri interni si ridisegnano, e la sicurezza — quella parola di cui per decenni non capivamo il significato — ha cambiato grammatica. Detto in modo semplice: l’Europa ha perso sé stessa. Ha smarrito il proprio ruolo, quello che ha ricoperto per secoli, nel bene e nel male. Da Napoleone al Commonwealth, dalla spartizione dell’Africa agli interessi coloniali, fino al dopoguerra, quando ha indossato con orgoglio il titolo di viceré degli Stati Uniti in questa parte di mondo. Un ruolo strategico, certo, ma anche subordinato, che le garantiva stabilità in cambio di allineamento.
Oggi quel modello sembra essersi incrinato. L’Europa non si riconosce più nel suo passato, ma non ha ancora trovato una nuova postura. Si muove, si espone, mostra i muscoli — ma senza una vera direzione. Ora che il vecchio idillio con il compare d’oltreoceano — la vecchia gallina dalle uova d’oro — si è profondamente incrinato, complice la postura e le minacce di Trump, l’Europa si sente maledettamente sola. Abbandonata, come dopo una grande storia d’amore, da cui esce non solo con le ossa rotte, ma anche con i figli sequestrati e un assegno salato da pagare per il loro mantenimento (vedi NATO).
Dopo Rearm EU, i segnali sono molteplici e preoccupanti: dalla guerra ibrida condotta dalla Russia, alle spinte militariste provenienti dagli Stati Uniti, fino alle divergenze interne all’Unione Europea su difesa, sovranità e leadership. L’Europa ha perso la propria sicurezza e cerca di recuperare il tempo perduto, ma lo fa senza unità d’intenti e senza aver probabilmente ancora stabilito priorità e assetti strategici. Il famoso vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro, per dirla con Manzoni.
Putin questo lo ha capito da tempo. Ed è anche il motivo per cui si è permesso di spingere sull’acceleratore del gas in Ucraina. Putin — che tutto è fuorché un pacifista — incarna, a suo modo, il dramma post-sovietico che la Russia ha dovuto attraversare. Con tanti anni di pane e cicoria alle spalle, per citare una frase fortunata di un ex leader di casa nostra.
In tempi migliori, con leader diversi e una diplomazia meno affaticata, forse si sarebbe potuto evitare questa contrapposizione a muso duro. Ma nel 2022, l’Europa — forte del consenso di Biden — aveva già scelto di accogliere la sfida. E pur restando formalmente ai margini, la NATO ha infilato le zampe dentro questa guerra. Per carità, all’inizio era giusto che l’Ucraina si difendesse dall’aggressione russa. Ma ora?
Ora sono passati quasi quattro anni. Quarantaquattro mesi, all’incirca milleseicentocinquanta giorni. Un tempo che avrebbe potuto essere impiegato per costruire una strategia, per ricucire, per pensare. E invece siamo ancora qui, con le stesse domande, gli stessi timori, e una sensazione di stallo che si fa sempre più pesante.
Oggi, rimasta sola, con le sue contraddizioni e le sue fragilità, l’Europa si ritrova a raccogliere i cocci della propria economia e a improvvisare, nel più breve tempo possibile, un’exit strategy che, diciamolo francamente, non aveva mai davvero contemplato. Non per mancanza di intelligenza, ma per una certa abitudine alla delega, alla protezione esterna, al riflesso condizionato di chi si è sempre sentito al sicuro sotto l’ombrello altrui. E ora, quell’ombrello non c’è più. E piove. A dirotto.
Una frase del cancelliere tedesco Friedrich Merz, a margine del vertice UE di Copenaghen di questa settimana, suona in maniera davvero emblematica: “Non siamo in guerra, ma non siamo più in pace.” È una frase che sintetizza perfettamente il clima attuale. Piaccia o non piaccia.
D’altra parte, cosa possiamo aspettarci se, non più tardi di qualche giorno fa, il capo del Pentagono — Pete Hegseth — ha convocato centinaia di generali per annunciare un cambio di paradigma: non più difesa, ma preparazione attiva alla guerra. Peraltro, lo ha fatto attaccando la “decadenza woke”, criticando l’inclusività e le politiche di equità come segni di declino militare. E ha proposto, davanti agli occhi sbigottiti dei generali che lo ascoltavano in religioso silenzio, standard fisici “maschili” per tutti i combattenti, indipendentemente dal genere, deridendo l’espressione individuale (barbe, capelli lunghi, sovrappeso). Per inciso: una postura irricevibile da parte di un Paese occidentale che, storicamente, si è sempre posto in prima linea nella difesa delle libertà.
Questa svolta americana ha implicazioni dirette per l’Europa, che si trova costretta a scegliere tra una difesa autonoma e il rafforzamento della dipendenza strategica da Washington. Non è più questione di presenza o assenza, ma di ruolo e responsabilità: cosa portare da casa, cosa mettere sul tavolo, cosa sacrificare in nome della sicurezza.
Nel frattempo, il riarmo tedesco — con un budget destinato a superare i 150 miliardi di euro entro il 2029 — sta già ridisegnando le gerarchie interne all’Unione. L’asse franco-tedesco vacilla, la leadership continentale è in discussione. E tornano a circolare nomi che fanno tremare le vene ai polsi: Luftwaffe, Wehrmacht… Parole che portano con sé un’eredità pesante, sedimentata nella memoria collettiva europea.
E mentre l’Europa si ostina a trattare la guerra come fosse una partita a Risiko, la notizia della settimana è il progetto “drone wall”: un piano per proteggere il fianco orientale dell’Unione, che ha messo in luce tutte le tensioni interne. Est contro Ovest, Nord contro Sud. Polonia e Paesi Baltici, vicini alla bocca di fuoco russa, chiedono misure urgenti. Francia, Germania, Italia e Grecia sollevano dubbi su costi, efficacia e distribuzione equa delle risorse.
Il vertice di Copenaghen ha mostrato quanto sia difficile trovare un consenso su temi cruciali come l’uso dei beni russi congelati, l’allargamento dell’UE e la governance della difesa. L’Europa appare ancora disallineata, divisa, incerta. Alle prese con crisi, minacce e nemici, ma senza una direzione chiara. Si muove, reagisce, rincorre gli eventi — ma non sembra sapere davvero dove sta andando.
Un tempo custode di equilibrio e diplomazia, oggi l’Europa si muove tra posture muscolari e fragilità strutturali, senza una vera bussola strategica. I vecchi riferimenti sono saltati, le alleanze incrinate, le leadership evaporate. E mentre il mondo accelera, il continente resta sospeso, incerto, impolverato come una statua mitologica dimenticata in un museo chiuso per ristrutturazione. Sembra davvero la caduta degli dei dall’Olimpo.
Alla fin fine … l’articolo serve perr parlare male di Putin… Putin il cattivone!
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Putin cattivo cacca, occidente buono pappa. Dopo 4 anni di filastrocca siamo sempre allo stesso punto.
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ti sei dimenticato agiustetto scemo.
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Come al solito hai capito tutto. Genio.
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Retorica. Ci mancavano solo i droni sul pollaio con il nastro adesivo, ed era completo.
ps: non dei, ma imbelli messi li apposta. Non è un dettaglio.
ps 2: ci spieghi lei, perché la politica estera ue è da tempo appaltata a tre paesini periferici che non tutelano le minoranze interne.
E ci spieghi ancora lei, se l’ingresso dei tre nella nato abbia aumentato la nostra sicurezza, come precondizione RICHIESTA dal trattato atlantico (e ricordando che non hanno aerei, né un esercito degno di tal nome).
Tiri una riga per la somma
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Analisi giusta alla Orsini …complimenti
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La chiave di decriptazione è stata resa pubblica accidentalmente da Tajani ed è composta da questo codice:
“fino / a / un / certo / punto”
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No vediamo Dei… solo cialtroni in affanno… abbaiano in impossibilità di mordere… more solito finiranno per rivalersi su deboli più prossimi!…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/
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COSA FARE- Viviana Vivarelli
Siamo la Fottilla! Siamo la speranza! Ci piegheranno una volta. Ci piegheranno cento volte. Non ci piegheranno per sempre.
Le cose nel mondo vanno male e in Italia anche peggio e mi sento perpetuamente triste ma non abbattuta. Non ho avuto una vita esattamente felice ma non mi sono arresa mai. Essere colpiti dalle disgrazie della vita è brutto ma rinnegare sé stessi è peggio. E credo che finché continuerò a combattere sarò viva. È morto solo colui che si dispera, che si butta via, che rinnega sé stesso, che si vende o si getta nell’inerzia del nichilismo. È morto chi crede che non si possa fare più nulla, anzi: che nessuno debba fare più nulla. La Flottilla è uno splendido esempio di chi non si è arreso, di chi non si arrenderà mai. 400 persone ci hanno provato e sono finite in carcere. 400 persone hanno vinto agli occhi del mondo. Il Male ha perso.
Noi siamo i nostri valori e viviamo in essi. Sedersi e non fare niente è come suicidarsi. Ci fa perdere l’anima.
Ormai faccio una campagna elettorale permanente. Vivo per quello. Bisogna vivere per qualcosa che superi la nostra piccola casa personale o saremo nati invano.
Ogni volta che sento qualcuno che si lamenta del carovita, delle bollette, della crisi economica e morale e delle chiaviche che ci governano, gli rispondo che abbiamo due sole armi: IL VOTO e L’OPINIONE PUBBLICA.
L’opinione pubblica vale quanto la propaganda di regime. E può superarla. La fai anche con un like, con un condividi, con lo scendere in piazza, con la protesta. Il regime è forte ma l’opinione pubblica è il suo contraltare. Il pessimo governo la spia e la teme. Guarda quanti sono i post sui social, quanti sono i like sotto i post, quante sono le lettere ai giornali, gli scioperi, le piazze. Siamo il suo incubo peggiore! Nessun Governo regge contro l’OPINIONE PUBBLICA. Tutto è fondamentale: un post su un social, un like, un condividi, una bandiera sul balcone, una barca, uno striscione, una lettera a un giornale, uno sciopero, un corteo, un voto, un digiuno, una candela accesa, una parola. Esisti quando sei presenza, quando sei voce, quando ti manifesti al mondo in qualche modo. Altrimenti sei nessuno. Non esisti. Non sei mondo. Sei cenere.
E dico che non mi interessa se chi posso votare ha fatto degli errori, spero che ne abbia fatti meno di altri, non mi incaponiso sul passato, tutti possiamo sbagliare, ma se non ci uniamo a chi ha sbagliato di meno non ne usciremo, andremo sempre peggio. Noi non siamo uno, siamo valanga. E in una valanga ogni granello ha la sua importanza, tanti fanno il tutto. Per questo non sopporto i negazionisti, i nichilisti, i perfezionisti, perché sono assurdi, privi di senso, non aggiungono senso ma tolgono vigore, passione, vita. I perfetti non esistono o forse loro si credono perfetti tanto da respingere qualsiasi cosa non sia perfetta come loro e dunque peccano di una presunzione immensa, insopportabile,. mostruosa. Nei fatti siano tutti altamente imperfetti e non è proprio il caso di vantarci di quel che non siamo o di pretendere la perfezione negli altri, ma sono proprio questi giusti imperfetti che hanno sempre fatto girare il mondo in modo migliore, ricominciando ogni volta da principio, perché il male non muore mai ma con la resistenza di una buona volontà che è sempre risorgente, con la resistenza di chi non si arrende.
Il sistema capitalista sta portando a rovina il mondo e probabilmente vuol far deflagare l’intero Pianeta, e tutto per far arricchire ancora di pù poche migliaia di oligarchi psicopatici e criminali, senza cervello e senz’anima. E oggi questa ideologia bacata e demoniaca compra i suoi estimatori si ammanta per di più del suprematismo bianco e ricco di Trump con una forma di nazismo ancora peggiore di quello vecchio, che di nuovo, come sempre, coagula attorno a sé gli individui più spregevoli e infetti, quelli più viscidi e pronti allo spergiuro, i nuovi Giuda sempre risorgenti, sempre con in mano i 30 denari per il potere e l’arricchimento dei più ricchi contro i diritti e il futuro di tutti.
Non è la morte che distrugge il mondo, ma l’avidità del Potere e l’inerzia dei vigliacchi.
Mi sento rispondere che il M5S è un salto nel buio e in questo momento di crisi non ce lo possiamo permettere. Rispondo che rivotare quelle chiaviche della Destra o quei successori di Draghi servo delle grandi banche per la depredazione delle Nazioni è la granitica certezza di una rovina, e che in un momento di crisi come questo non ci possiamo permettere nichilismi ed errori.
Le piazze italiane per la Flottilla, le piazze del mondo per un mondo migliore, ci dicono che un mondo migliore esiste. Non sputiamoci sopra o meriteremo l’inferno. Noi possiamo ancora salvare il mondo. PROVIAMOCI!!
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Buongiorno, non la conosco, non so chi sia, non so quanti anni abbia… ma ogni volta che la leggo penso che non saprei dire così bene, che se la maggior parte di noi ragionasse così saremmo salvi dall’abbruttimento, se i nostri parenti, i nostri amici, i nostri vicini, i nostri colleghi sapessero ragionare così, pensare, sentire, avremmo molte speranze… Grazie, la ringrazio molto di aiutarmi a sperare… sperare soprattutto per chi è e verrà dopo di noi… sperando per noi che “Se ci fosse luce sarebbe bellissimo…”
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Non è il quasi omonimo cronista del FQ ma un inutile parolaio che espone idee apparentemente profonde, quasi confuse ma alla fine della fiera molto banali e allineate, degne del Foglio … cercherò di non ricascarci.
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PAVLOV E I RIFLESSI CONDIZIONATI- Viviana Vivarelli
Lo scienziato russo Pavlov faceva dei test sui cani. Suonava un campanello e dava loro una bistecca. Alla fine il cane, quando sentiva il campanello, cominciava a salivare perché aspettava la bistecca. Si era creato un riflesso condizionato.
Allo stesso modo hanno condizionato le persone.
Hanno fatto venire una fobia a un neonato perché, ogni volta che gli mostravano una pallina rossa, schizzava su un pupazzo orribile che lo spaventava. Alla fine, appena lui vedeva la pallina rossa, si metteva a piangere.
Pavlov fece altri esperimenti. Uno consisteva nell’insegnare ai cani a distinguere un’ellisse da un cerchio. Gli animali erano addestrati a premere due diversi bottoni a seconda della figura mostrata. Se premevano un bottone quando appariva un cerchio ricevevano una bistecca, ma se appariva una ellisse ricevevano una scossa elettrica.
Ma a un certo punto il cerchio cominciò a modificarsi e ad assomigliare sempre più a una ellisse. I cani impazzirono.
Ebbero 3 tipi di reazioni:
1. Catatonìa (disarmati dall’impossibilità di scegliere bene, smisero di rispondere e accettavano la scossa elettrica).
2. Paranoia (si agitavano e, pur di riuscire a dare la risposta corretta, cercavano stratagemmi assurdi finché andavano in paranoia).
3. Schizofrenia (davano risposte casuali senza logica).
Nei rapporti con gli altri, i cani o diventavano apatici, si isolavano, o diventavano iperattivi e aggressivi.
Con i partiti è stato lo stesso. Un tempo destra e sinistra erano ben distinte, poi la sinistra ha cominciato a somigliare sempre più alla destra. (Vedi i Verdi che si sono spaccato in due o Marco Rizzo che entra nel partito di Vannacci, i sovranisti di destra che si sono sottomessi alla von der Leyen e a Trump o i sindacalisti che non hanno fatto un fiato davanti al Jobs Act o il Pd che vota per le leggi della Meloni e il riarmo o Grillo che rinnega sé stesso).
Gli elettori sono andati in tillt. In parte sono diventati apatici e hanno smesso di votare. In parte sono diventati aggressivi. In parte sono entrati in paranoia.
Gli esseri umani avrebbero bisogno di distinguere in modo chiaro il bene dal male. Ma chi glielo insegna? Le famiglie? La scuola? Le chiese? I partiti? I media? I personaggi sociali più noti?
Oggi i partiti e i media predicano la guerra, esaltano i peggiori, puniscono gli onesti e premiano evasori e malfattori (vedi Berlusconi o i Gucci a cui il fisco regala 748 milioni o i Riva mai puniti per le migliaia di morti o i Benetton che dai 49 morti del Ponte di Genova ci hanno pure guadagnato).
Il cittadino comune non è più sicuro di nulla: di quel che avviene in guerra e in pace, di chi tiene nelle mani le bollette, di chi come scienziato gli dice come difendersi dalle malattie o dal cambio climatico…Siamo la società dei paradossi, dove uno che predica la pace come il papa viene ignorato mentre il primo politicuzzo assatanato con la guerra e la distruzione sociale è intervistato da tutti i media, dove si stradice di voler salvare i popoli quando nessuno fa nulla per evitare una guerra nucleare o una catastrife economica generale, dove il cambio climatico imperversa ma va di moda il negazionismo, dove esiste un Nobel per la pace ma al Nobel si candidano Zelensky e Trump, dove la privatizzazione delle società energetiche sta distruggendo l’economia ma alle elezioni vincono proprio i partiti che esaltano le privatizzazioni, dove un govreno che defiscalizza banche e multinazionali raccatta voti da poveracci che devono pagare i conti di tutti, dove c’è una evasione fiscale dai 150 ai 200 miliardi ma tutti azzannano i più poveri senza nemmeno reddito minimo e ai minimi della sopravvivenza. Caos cognitivo, ignoranza atroce e paranoia si legano ad aggressività, ferocia, disumanità o stato comatoso.
Pensate solo al fatto che oggi muoiono più persone per errate cure mediche che per malattie. Si muore più di infezioni prese in ospedale che di pandemie. Che il capo di una delle più famose religioni che predica la povertà è ricoperto d’oro e difende la Nato come il piano di Gaza. Si finge di proteggere i bambini ma non si punisce la pedofilia o il traffico delle adozioni o chi ha fatto impunemente 20.000 bambini morti. La Costituzione ripudia la guerra ma si esaltano i guerrafondai e si ignorano i negoziati di pace nella morte della diplomazia e i popoli continuano a votare chi li porta verso l’abisso. Si predica la compassione ma ci si accanisce contro chi aiuta gli affamati.
Noi non sappiamo più distinguere un cerchio da un ellisse.
E allora le reazioni sono tre:
– non ce ne frega più niente di niente
– ci incazziamo
– entriamo in completa schizofrenia.
In totale facciamo del male a noi e agli altri.
Il neoliberismo ha prodotto questo: ha messo l’uomo contro l’uomo, l’amico contro l’amico, il padre contro il figlio, un Paese contro l’altro. La dissonanza cognitiva è massima.
Siamo nell’era orwelliana dove l’odio si chiama amore, la pace si chiama guerra, la schiavitù libertà, l’autoritarismo democrazia, la sinistra è come la destra, il povero vota per gli interessi del più ricco, nessuno capisce più niente e tutti ci rimettono tutto a favore di pochissimi che sono pure rivotati dalle loro vittime.
Ma guai a sconfessare le contraddizioni! Il sistema ti punisce, ti sospende, ti querela, ti imbavaglia… e chiama questo: DEMOCRAZIA!
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La ammiro!
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Tempo perso.
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Gianvito Pipitone ha scritto un bell’articolo, in cui mette in luce la drammatica inadeguatezza della generazione che guida l’Europa in questa fase storica di cambiamento. Visto però che non usa il linguaggio di Merlo, o non cita neanche una volta la lacca della VdL, i peggiori frequentatori di Infosannio battono i pugnetti sul tavolo e si lamentano.
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Spero che non esista un karma anche per interi continenti altrimenti siamo rovinati.
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Se vi piacciono le cose che dico e come le dico, fate un salto sulla mia nuova rubrica Fuori Asse, ospitata su Substack.
Troverete l’articolo in versione blog, più ampia e discorsiva, punteggiata di note di colore, ironia e riflessione.
https://gianvitopipitone.substack.com/
PS: l’invito è esteso anche e soprattutto! per chi non è d’accordo con quello che scrivo, ma solo se avete voglia di argomentare con rispetto per l’interlocutore.
Gianvito
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Un articolo che descrive bene gli effetti, ma trascura le cause profonde della fragilità europea.
L’Europa può essere assimilata a un vaso di terracotta in mezzo ai vasi di ferro: apparentemente fragile rispetto alle potenze esterne.
Per decenni si è cullata nella sicurezza della NATO a guida USA e nella sua superiorità economica e tecnologica, senza accorgersi che altre nazioni avanzavano rapidamente, erodendo il vantaggio competitivo accumulato nel tempo.
In termini concreti, l’UE ha perso rilevanza strategica nei confronti degli Stati Uniti, intesa come capacità di influenzare gli eventi globali, e importanza strategica rispetto alla Cina, ossia il peso economico e tecnologico potenziale.
Le cause di questa perdita sono molteplici e in parte strutturali. La caduta del comunismo nei Paesi dell’Est ha aperto un’enorme opportunità: integrare questi Paesi, espandere il mercato unico e consolidare l’influenza europea fino ai confini della Russia. In realtà, l’Europa si è fermata ai confini dei Paesi minori, senza includere la Russia in una strategia di integrazione globale. Ne è derivata una mancata trasformazione della rendita di posizione post-1989 in una vera potenza geopolitica.
Allo stesso tempo, la fine della Guerra fredda ha reso il mondo più sicuro dal punto di vista militare globale, anche se permangono tensioni locali nei Balcani, nel Caucaso e in Medio Oriente.
Questa maggiore sicurezza ha ridotto la pressione sulle élite europee a investire in difesa autonoma, creando un effetto indiretto sulla rilevanza strategica.
Parallelamente, l’evoluzione tecnologica e la mobilità dei capitali hanno dato impulso alla globalizzazione. L’Europa ha beneficiato di flussi di capitale, outsourcing e apertura dei mercati, ma nello stesso tempo economie emergenti come Cina, India e Sud-Est asiatico hanno ricevuto know-how e tecnologie occidentali, accelerando la loro crescita e superando l’Europa in settori strategici.
A questi fattori esterni si aggiungono le debolezze interne. L’Europa è politicamente frammentata e non ha mai sviluppato una leadership forte e coerente capace di trasformare l’importanza strategica in reale rilevanza.
Le figure di spicco, come Schroder e Merkel, hanno operato più per garantire energia a basso costo e stabilità economica che per costruire una reale integrazione strategica con la Russia.
Tatticamente efficace allora , questa politica si rivela oggi un boomerang: la dipendenza energetica e la mancanza di influenza geopolitica emergono con chiarezza.
Gli effetti sono evidenti: dipendenza militare dagli Stati Uniti, marginalizzazione tecnologica rispetto alla Cina e ad altre potenze emergenti, difficoltà a prendere decisioni rapide e coerenti su sicurezza, energia e politica estera.
La soluzione richiede un approccio complesso e graduale: rafforzare le istituzioni europee, definire priorità comuni, costruire una narrazione e un’identità condivisa, sviluppare una leadership forte ma collettiva, e ridurre progressivamente la dipendenza esterna in settori chiave.
La vera domanda che l’Europa deve porsi oggi non è solo come reagire agli eventi in corso, ma se stia muovendosi nella giusta direzione per trasformare la propria importanza strategica potenziale in reale rilevanza globale, evitando di restare il vaso di terracotta tra vasi di ferro.
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