Viviamo in un tempo che riduce ogni cosa a scelte nette, dove il dubbio viene percepito come debolezza e la complessità come un ostacolo da evitare. Eppure, è proprio nel dubbio che nasce il pensiero, e nel pensiero la possibilità di riconoscerci. Capire davvero è l’ultimo atto rivoluzionario che ci resta.

(Di Gianvito Pipitone –ilpensieromediterraneo.it) – C’è una domanda che ci accompagna da tempo, silenziosa ma insistente: come siamo finiti in questo groviglio inestricabile? La sensazione è diffusa, e non priva di fondamento. Il mondo di oggi appare più complicato, più frammentato, più rumoroso. E non necessariamente migliore.

Il periodo successivo alla pandemia avrebbe potuto renderci più consapevoli, più attenti, più capaci di ascolto. Invece ci ha restituito una società nervosa, impaziente, spesso incapace di elaborare. Orientarsi è diventato un esercizio faticoso. Riconoscere l’altro, cogliere le sfumature, accettare ciò che non si può spiegare in due righe è ormai quasi un privilegio. Per non soccombere al logorio della vita – come recitava quella vecchia pubblicità – serve una mappa interna. Non una bacchetta magica, ma un sistema di coordinate che ci permetta di leggere il presente nella sua interezza, evitando scorciatoie, etichette, contrapposizioni. Pensare non basta. Bisogna capire da cosa proteggerci per continuare a essere umani.

Le relazioni umane hanno subito una trasformazione profonda. I social network, da Facebook in poi, hanno progressivamente sostituito gli spazi condivisi di un tempo: il campetto dell’oratorio, il bar dell’angolo, il muretto del quartiere. Luoghi dove si imparava a stare insieme, a mediare, a riconoscere l’altro senza bisogno di filtri. Oggi ognuno costruisce il proprio personaggio, alimenta aspettative, cerca conferme. La vita si racconta più che si vive. E nel farlo, si perde il contatto con l’esperienza.

La società liquida descritta da Bauman ha reso tutto instabile. Le relazioni si sono fatte leggere, ma anche fragili. Un “ci vediamo presto” sotto un post sostituisce l’incontro reale. Le amicizie si mantengono con emoji, le conversazioni si riducono a vocali ascoltati a doppia velocità. La presenza dell’altro si dissolve, e il bisogno di semplificare prende il sopravvento. In questo contesto, il pensiero critico fatica a trovare spazio.

Chi è cresciuto nell’analogico ricorda un tempo in cui ciò che non si conosceva veniva trattato con rispetto. Il mistero apriva spazi di meraviglia, di possibilità. Oggi ciò che sfugge alla comprensione viene ignorato o ridicolizzato. Il sapere si è trasformato in oggetto da esibire. Non nasce dal desiderio di comprendere, ma dalla necessità di possedere risposte pronte. Dire “non lo so” è diventato imbarazzante. Meglio improvvisare una risposta che ammettere un dubbio.

Da questa certezza superficiale nasce una nuova forma di ignoranza. Le teorie complottistiche – dal terrapiattismo al rettilianesimo – non sono semplici eccentricità. Rivelano un rifiuto della complessità. Non emergono da percorsi di pensiero, ma da vuoti di riflessione. Chi prova a ragionare viene isolato. Il pensiero critico diventa bersaglio.

Lovecraft scriveva che “la paura più antica è quella dell’ignoto”. Oggi quell’ignoto non genera rispetto. Si trasforma in caricatura. Il confine tra immaginazione e realtà si dissolve. La fantasia diventa convinzione. Il mondo si popola di universi paralleli, dove tutto è possibile e nulla è verificabile.

Questa deriva è costruita. I media, spesso legati a programmi politici, contribuiscono a creare un clima ostile al pensiero critico. Le emozioni collettive vengono manipolate con precisione chirurgica. Steve Bannon ha teorizzato questa strategia: disgregare il ragionamento, esasperare l’identità.

Negli Stati Uniti, questo brodo ha prodotto una radicalizzazione diffusa. Un mix di polarizzazione mediatica, retorica tribale e semplificazione estrema. Donald Trump ha incarnato questa grammatica pubblica. Il suo stile arrogante e sgradevole ha sdoganato un linguaggio politico che punta al dominio. La rozzezza diventa cifra comunicativa, segno di autenticità, strumento di potere.

Le opinioni si irrigidiscono. I dubbi fanno paura. Il confronto scivola nel conflitto. Le verità si moltiplicano, ciascuna modellata sul punto di vista di chi la pronuncia. Il sistema di valori condivisi si restringe. La mediazione perde spazio.

La violenza verbale e fisica che attraversa gli Stati Uniti è il sintomo di una frattura profonda. La vita, che dovrebbe essere il valore più alto, viene ridotta a slogan. La polarizzazione ha separato il mondo in blocchi contrapposti. La moltiplicazione dei temi rende ogni confronto più difficile da decifrare.

A questa deriva contribuisce anche una visione individualistica della giustizia. Non più principio condiviso, ma strumento personale di rivalsa. Il senso del limite si dissolve. La violenza diventa linguaggio. Risposta. Identità.

Un tempo bastava osservare le inclinazioni di una persona – più sociale o più individualista, più autoritaria o più inclusiva – per intuire chi avevamo di fronte. Non si trattava di ceto o classe sociale. Era un’attitudine. Una forma di riconoscimento reciproco. Oggi la personalizzazione si è spinta oltre. Le posizioni si moltiplicano. La catalogazione diventa impossibile. Anche chi condivide lo stesso meme può pensarla in modo opposto. Il dissenso viene vissuto come offesa.

La politica affronta ogni giorno questa frammentazione. I valori fondanti non aggregano. I partiti cercano argomenti che uniscano senza respingere. In questo vuoto, il populismo cresce come lievito madre. Investe ogni tema con logiche radicali.

Un tempo c’era l’Idea che aggregava. Oggi ci sono le idee dei militanti. Una somma che fatica a produrre sintesi. Il pensiero si militarizza. Ogni argomento diventa terreno di scontro. Sui social, ogni tema si trasforma in una guerra di link. La fonte conta meno del contenuto. Conta solo che confermi la propria posizione. Il dialogo lascia spazio alla conferma identitaria.

La polarizzazione attraversa tutte le categorie. Non risparmia nessuno. Viene spesso manipolata da soggetti politici abili, che ne comprendono il meccanismo e lo usano per alimentare l’odio.

La domanda iniziale ritorna. Come siamo arrivati a tutto questo? Chi ci ha condotti in questa condizione di incomprensione? Di chi è la responsabilità? La società ha smarrito il senso del limite? La politica ha rinunciato alla complessità? Oppure siamo noi, come individui, ad aver ceduto alla comodità del pensiero binario? Queste dimensioni si intrecciano. Si alimentano a vicenda. Rendono difficile tracciare confini. Per questo, vista la povertà del pensiero pubblico e la tendenza a semplificare, è meglio non cercare risposte definitive. Non per prudenza. Per evitare nuove semplificazioni.

Una cosa resta chiara. Serve recuperare il rispetto per ciò che non si conosce. Henri Bergson suggeriva di semplificare la vita con lo stesso ardore con cui la si complica. Da lì si può ripartire. Ritrovare il senso del dubbio. Della domanda. Della meraviglia. Serve una nuova alfabetizzazione emotiva e cognitiva. Una cultura del pensiero che accolga la complessità come risorsa. Servono spazi dove il pensiero venga coltivato. Dove il dissenso sia una possibilità.

Che il mondo dei vivi ci sia lieve. Che il pensiero torni ad abitare le nostre conversazioni. Non come ornamento. Come strumento per riconoscerci. Comprendere la complessità non è un lusso. È una necessità. Pena l’estinzione.