
(Giulia Grilllo e L’Indispensabile – lafionda.org) – Nella questione riguardante il conflitto Israele-Palestina assistiamo ad un aumento esponenziale dei toni e del linguaggio di giorno in giorno. Botte e risposte sempre più forti, sempre più offensive e sempre più accusatorie. Tutte le parti coinvolte, e tutti coloro che decidono di coinvolgersi, utilizzano lo stesso meccanismo, la stessa logica: diciamo ciò che pensiamo sempre con più forza perché chi avrà più forza, avrà la meglio in questa disputa e quindi vincerà. Un partecipante ai processi di riconciliazione tenutisi dal 2009 al 2015 tra un gruppo di ex militanti dell’estrema sinistra italiana, che ha operato durante gli anni di piombo, e un gruppo di vittime, ha detto che all’epoca fare politica significava riuscire a fare un buco più grande in uno più piccolo e chi ci riusciva, vinceva (Bertagna, Ceretti and Mazzucato, 2015, pp. 109–110). Beh, in Italia sappiamo bene questo a cosa ha portato e nonostante ciò, utilizziamo ancora questo meccanismo, che vediamo tuttora in atto con qualunque cosa: il conflitto tra Russia e Ucraina, quello tra Israele e Palestina, quello tra no-vax e pro-vax e altri.
Chissà poi perché a nessuno sembra importare di tutta un’altra serie di conflitti, ad esempio in Sudan o in Congo o in Myanmar o ad Haiti (!!!) ed altri luoghi dove violenze e massacri vari si susseguono senza sosta da molto più tempo e prima degli anni 2020 – 2025. E non dico questo perché voglia fare una classifica dei morti o del dolore, affermando che alcuni sono più importanti di altri, anzi, proprio il suo esatto contrario. Ogni vita umana è uguale e ha pari dignità e ogni forma di danno o violenza contro essa, quindi contro la persona, è un atto grave, che deve essere compreso, nel senso che bisogna capire da dove derivi, ma che non si può né giustificare né minimizzare perché non esistono scuse per fare del male ad altri, neanche se si tratta dei vari Caini di turno (E giusto per essere precisi, nella nostra vita siamo stati e siamo tutti Caino e Abele allo stesso tempo, questo sarebbe bene tenerlo a mente, soprattutto quando ci sentiamo in dovere di diramare sentenze e condanne).
Ma tornando al punto, assistiamo ogni giorno ad urla sempre più forti, ad insulti sempre più forti, ad umiliazioni sempre più forti. Perché? Perché, alla fine, la logica impiegata è sempre la stessa, spesso anche da chi si dice lì per riportare la giustizia e la pace: se urliamo più forte, se umiliamo di più, se accusiamo di più allora avremo la meglio sul ‘male’ di turno, sul cattivo di turno – di nuovo, dimenticandoci che tutti siamo stati e possiamo essere nella nostra vita sia Caino che Abele; dr Jekyll e Mr Hyde.
Ma cosa sono la pace e la giustizia? Ce le poniamo davvero queste domande? E se sì, ci diamo davvero delle risposte serie e vere o ci diamo risposte che giustifichino e minimizzino le nostre azioni e quelle di coloro che identifichiamo come nostri ‘amici’ o dalla ‘nostra parte’, puntando invece i riflettori sugli altri e sulle azioni di altri? E che parole usiamo quando denunciamo ciò che è male, quando portiamo alla luce le ingiustizie? O anche quando parliamo a noi stessi? Usiamo parole che costruiscono la pace, che disinnescano la violenza, che spezzano la spirale ascendente di toni aggressivi o utilizziamo parole che invece fomentano le divisioni, le polarizzazioni e quindi la violenza e la guerra? Le parole non sono vuote, non sono neutre, hanno un peso molto forte e, come hanno detto in tanti, hanno il potere di costruire mondi (Goodman, 1978; Rosenberg, 2003; Sclavi, 2003). Mondi che appunto non sono neutri, ma rispecchiano ciò che le parole usate hanno voluto comunicare; gli obiettivi che le parole usate volevano raggiungere.
Allora chiediamoci: che cosa voglio comunicare? Qual è l’obiettivo che voglio raggiungere? Quando parlo di pace e di giustizia, che cos’è che intendo veramente? Sto cercando di vendicarmi dell’altro o sto cercando di ricomporre i pezzi di un vaso che si è rotto? E se il mio scopo è la ricomposizione di un vaso rotto, le mie parole e le mie azioni consequenziali mi stanno avvicinando a questo obiettivo o stanno invece rompendo il vaso ancora di più?
Fermiamoci a riflettere, dunque; prendiamoci del tempo per capire quali sono i nostri obiettivi, se è la pace e la giustizia che vogliamo o se invece sono la vendetta e la sopraffazione dell’altro che ci sta antipatico cui aspiriamo e che mascheriamo con parole quali pace, giustizia, diritti umani e simili. Fermiamoci e riflettiamo senza cadere nella trappola della fretta e dell’urgenza perché la fretta è cattiva consigliera – e non è solo un modo di dire, ma un dato di fatto. Tutti abbiamo ragioni per urlare, anche quelli che noi consideriamo essere in torto e ‘cattivi’, proprio tutti, sì. Ma aiuta? Sta aiutando? O forse è arrivato il momento di uscire dai questi soliti schemi e logiche, questa volta per davvero.
Bibliografia
Bertagna, G., Ceretti, A. and Mazzucato, C. (2015) Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Guido Bertagna, Adolfo Ceretti and Claudia Mazzucato. Milan: ilSaggiatore.
Goodman, N. (1978) Ways of Worldmaking. Hassocks: Harvester Press.
Rosenberg, M.B. (2003) Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla comunicazione non violenta. Reggio Emilia: Edizioni Esserci (Dire, fare, comunicare).
Sclavi, M. (2003) Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Milan: Bruno Mondadori (Sintesi).