Il luogo dell'attentato di Charlie Kirk

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Quando uscì al cinema, nell’aprile del 2024, “Civil War” sembrò una proiezione distopica e mefitica del sogno americano, trasfigurato in un incubo kubrickiano. Oggi, di fronte al corpo senza vita di Charlie Kirk, ci chiediamo dove porti, il proiettile che l’ha ucciso durante un dibattito pubblico nello Utah. Alla guerra civile raccontata un anno e mezzo fa dal film di Alex Garland, dove i guerrieri improvvisati delle diverse fazioni si combattono e si sparano per le strade. O a un sussulto di responsabilità della politica, che nell’ennesima tragedia rinuncia a consumare le sue vendette e prova a ritrovare le ragioni non della guerra, ma della convivenza civile. Questo è il bivio al quale è arrivata l’America, e noi con lei. Perdersi, raggiungendo quel proiettile negli abissi dell’odio e dell’intolleranza; oppure ritrovarsi, seguendo la via del dialogo che nonostante i suoi furori ideologici batteva anche quell’uomo assassinato a 31 anni, in uno dei tanti campus in cui cercava proseliti. Ecco la scelta, in due parole: follia o democrazia.

Trump, purtroppo, non smentisce se stesso. Arrestato il killer, il presidente manifesta subito i suoi auspici: “Spero nella pena di morte”. Dello stesso tenore, o anche molto più feroci, le reazioni della galassia Maga. Intendiamoci subito: non c’è niente, ma proprio niente che possa suscitare un moto di comprensione e meno che mai di giustificazione nei confronti del vile criminale che ha premuto quel grilletto. Il ventiduenne Tyler Robinson non sembra il solito sbandato della Rust Belt che con un fucile a pompa fa strage in una scuola o in un McDonald’s: aveva persino inciso sui proiettili i suoi messaggi di morte, da “Hey fascist” a “Bella Ciao”. La sua vittima non era Madre Teresa di Calcutta: da irriducibile influencer turbo-trumpiano con 7 milioni di follower, Kirk era un convinto xenofobo suprematista, vedeva ovunque i demoni del Woke, disprezzava i migranti ispanici e le minoranze Lgbtq, pensava che i neri commettessero meno reati nella belle époque dello schiavismo, che anche alle donne stuprate si dovesse vietare l’aborto e che il sacro diritto costituzionale a possedere armi fosse la migliore salvaguardia della vita umana. Insomma, il truce armamentario “valoriale” della peggior destra degli ultimi due secoli, messo a punto nelle segrete di Mar-a-Lago, ibridato dal neo-conservatorismo di Kevin Roberts e della Heritage Foundation, dal tecno-ottimismo reazionario di Peter Thiel e Marc Andressen e dall’aristo-populismo di Patrick Deneen. Kirk, di questo titanico reset ideologico, era braccio digitale e insieme anche agit-prop relazionale. Nulla è condivisibile, della “dottrina” che questo comunicatore riversava sui social, nei podcast, nei talk, nelle università. Era un personaggio discusso. Ezra Klein, sul New York Times, segnala che Kirk aveva almeno una qualità: si confrontava con tutti, cercava di persuadere gli interlocutori con la forza degli argomenti. La docente Stacey Patton, viceversa, ricorda che Kirk diffondeva le Professor Watchlist, liste nere di accademici progressisti che venivano travolti da insulti e minacce di ogni tipo, e conclude che Charlie “non meritava certo di morire, ma le sue vittime non meritavano l’inferno che lui gli ha scatenato contro”.

Qualunque sia la verità, è questo che ha ucciso davvero, l’attentatore: il confronto-scontro delle idee. Cioè la linfa che nutre una società aperta e un sistema liberale. Ed è questo deposito di dignità e di civismo, oggi, che andrebbe protetto e riaffermato. Non sta succedendo. The Donald continua a interpretare l’unico ruolo che conosce: lo sceriffo di Washington, che accusa la sinistra “responsabile del terrorismo”. Gli fanno eco i falchi del Gop, come il deputato Pat Harrigan che urla “i democratici non sapevano argomentare con Charlie, perciò gli hanno sparato”, e gli avvoltoi del web, come Elon Musk che cinguetta “la sinistra è il partito degli omicidi”. Non si salva più niente e nessuno, se si risponde a una morte invocando altra morte e si condanna la violenza predicando altra violenza. C’è un filo rosso sangue, che macchia la storia americana. Quella passata, che va da John a Robert Kennedy, da Malcolm X a Luther King, fino ad arrivare a Ford e Reagan. Quella più recente, che va dall’assalto a Capitol Hill all’assassinio della deputata Melissa Hortman, fino ad arrivare al ferimento del senatore John Hoffman in Minnesota e dello stesso Trump a Butler. È questa spirale che andrebbe fermata, subito. Ma servirebbero statisti capaci di abbassare i toni e alzare il rispetto, di abbattere i castelli di rabbia e di svuotare i fiumi dell’odio. Invece le destre trumpiane, al di là e al di qua dell’Atlantico, continuano a inoculare veleno nelle vene dei popoli. Ha ragione Jonathan Safran Foher, a dire che Trump ha coltivato la violenza per anni, con la sua retorica, con il suo rifiuto di accettare elezioni legittime, con la grazia concessa a chi tentò il colpo di Stato e a chi rifiutò di vaccinarsi, con il suo sistematico gaslighting contro le opposizioni, con la sua continua manipolazione della realtà: una deriva letale, perché convince i suoi sostenitori che la violenza verbale e materiale è solo sano patriottismo. E ha ragione Percival Everett, a sostenere che Trump dovrebbe fare un passo indietro e invece trasforma questo brutale delitto in un atto politico, usandolo come un’arma contro il dissenso.

Come sempre, quando c’è da scommettere sul peggio, i nostri patrioti non deludono mai. A parte gli Stati Uniti, solo in questo sciagurato Paese l’assassinio di Kirk innesca reazioni tanto strumentali e surreali. Di questo dilagante virus del rancore, ideologico e persino antropologico, la destra tricolore è insieme portatrice e untrice. Giorgia Meloni tace sulle stragi, fischietta su Larussa e Santanché in vacanza sullo yacht da 70 mila euro a settimana, balbetta su Gaza: in compenso trova il tempo di commentare il post di un ignoto gruppuscolo di liceali senza cervello e senza futuro, che postano in rete l’immagine di Kirk capovolto con la scritta “-1”. Una porcheria indegna, non c’è dubbio: peccato solo che la premier la tratti come la risoluzione strategica delle Br che rapirono e uccisero Moro, vaneggiando di “sedicenti antifascisti”, evocando un “clima” che, “ormai”, è questo “anche in Italia”, e concludendo col più classico slogan post-missino “non ci faremo intimidire”. Naturalmente, quando la Sorella d’Italia chiama alle armi i Fratelli accorrono in massa. E le bestialità si sprecano, in un delirio collettivo e aggressivo che culmina con le parole di un ministro suo malgrado, capace di paragonare l’Italia di oggi a quella dell’omicidio di Sergio Ramelli e dei brigatisti “compagni che sbagliano”. Farneticazioni di un ceto politico inadeguato, irrisolto e irresponsabile, che ha un continuo bisogno di nemici per definire se stesso, la sua identità, i suoi valori. Fermatevi, finché siete in tempo: in una democrazia — esaurita come quella americana, svilita come quella italiana — la discordia nazionale non può essere un metodo di governo.