Una malattia da cui è necessario guarire

(di Gianvito Pipitone – notiziegeopolitiche.net) – Non serve essere psicologi per capire che la mente tende a seguire strade già battute. Né bisogna essere storici per fare paragoni con il passato. A volte, è proprio mescolando saperi diversi – un po’ di psicologia, qualche riferimento storico, un fatto di cronaca – che si apre una chiave utile per leggere il presente. Costruire una teoria perfetta che spieghi tutto è francamente inutile, oltre che impossibile. Meglio provarci, anche per tentativi, ammettendo che sì, il mondo è frammentato e confuso, ma vale la pena guardarlo da angolazioni sempre nuove. E invece, ancora una volta, per pigrizia, abitudine o convenienza, ci adagiamo nella nostra comfort zone. Seguiamo la corrente, anche quando ci porta fuori rotta.
Basta osservare le piazze – quelle fisiche, certo, ma soprattutto quelle virtuali – per percepire la tensione. Per parlare di politica, i social hanno ormai sostituito del tutto circoli e bar, dove i doveri di socialità spesso impongono di restare superficialmente leggeri. Il dibattito si è spostato invece online, tra post, commenti, stories e dirette.
Vere o digitali, le piazze sono diventate terreno di guerriglia e continui tafferugli. Da una parte la kefiah e la bandiera palestinese usata come avatar; dall’altra la kippah e la stella di David. Protetti dall’anonimato, il confronto si irrigidisce: le distanze si amplificano, le emozioni si esasperano, i video diventano proiettili, i commenti rasoiate. Due schieramenti con i paraocchi si fronteggiano a distanza ravvicinata, senza alcuna voglia di capire i motivi dell’altro. Non si argomenta, si va solo all’attacco. Anzi, all’arrembaggio. Basta un commento fuori linea per etichettare qualcuno come nemico. E la legge del branco non perdona. È follia. Ogni tema diventa tifo da stadio, come se le opinioni fossero maglie di Roma e Lazio da indossare sempre, in ogni momento della vita. Per appartenenza, per mostrare un’identità netta, per sentirsi parte di qualcosa, per dimostrare coerenza. E così, cori e insulti alimentano il flusso incessante dei social, soprattutto quando il tema è marcatamente politico.
La psicologia sociale ha studiato bene questo meccanismo: lo chiama polarizzazione di gruppo. Quando persone con idee simili si ritrovano, le convinzioni si rafforzano e si estremizzano. Unico scopo dichiarato, all’interno del gruppo, è cercare conferme. Il confronto diventa una gara di coerenza, e chi sta dall’altra parte smette di essere interlocutore: diventa automaticamente minaccia. Sembra un meccanismo antico, radicato nella nostra biologia: il cervello tribale. E cosa davvero incredibile, spesso non ci sono differenze di censo, educazione, cultura ed estrazione sociale. La polarizzazione colpisce tutti, in maniera orizzontale, con lo stesso decorso clinico e non c’è campo o applicazione che le sfugga.
E veniamo al legame con il passato. Quando la si guarda con attenzione, la Storia ci insegna che dopo le grandi ferite collettive ci sono stati momenti di svolta. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, un’Europa stremata ma determinata, ha scelto la via della ricostruzione. Con fatica, certo, ma puntando su crescita economica, benessere diffuso, cultura e integrazione. È stato un modo per guarire, per ricucire le ferite attraverso la leggerezza e il progresso. Di segno diverso la reazione dopo la Prima Guerra Mondiale. In quel caso, il vuoto lasciato dal conflitto non fu riempito da ponti, ma da muri. Ideologie totalizzanti, promesse assolute, nemici assoluti. La polarizzazione, cioè, ha agito come motivo scatenante e motore disgregante per un nuovo ed insanabile disastro.
E oggi? Anche senza una guerra mondiale (ufficiale) in corso, ma con dinamiche geopolitiche fortemente polarizzate, ci troviamo di nuovo davanti a un bivio. La polarizzazione ha trovato terreno fertile anche e soprattutto in geopolitica, spinta da strumenti che prima non esistevano: social che amplificano effetti, emozioni e rabbia, algoritmi che rinchiudono in bolle ideologiche, crisi che aumentano paura e diffidenza. E il risultato, a distanza di un secolo, è sorprendentemente simile al primo dopoguerra del Novecento: incapacità di sintesi, desiderio di rivalsa, difesa dei propri interessi, rifiuto di comprendere l’altro.
In questo scenario, serve tornare alla ragione. Non quella astratta dei filosofi, ma quella concreta che aiuta a orientarsi. Dopo un periodo in cui il linguaggio si è irrigidito, creando modelli inclusivi che escludevano a loro volta una parte – con la filosofia woke – e dopo il revanscismo reazionario che ha sdoganato comportamenti spesso indegni, il pensiero razionale, quello di stampo illuminista, semplice, onesto, capace di distinguere senza aggredire, può fare davvero la differenza.
La polarizzazione non è una condanna. E soprattutto non l’ha prescritta nessun medico. Al contrario. Per guarire sembra evidente che il dialogo da solo non basti. Per rompere il circolo occorre lucidità, pazienza, e soprattutto il coraggio di mettere in discussione le proprie idee. Il che non significa diventare Madre Teresa di Calcutta da un giorno all’altro. Basta solo smettere di darsi ragione per partito preso.
Vi è un’antinomia riconducibile a Kant nella Critica della ragion pura, dove la ragione, oltrepassando i limiti dell’esperienza possibile, entra in contraddizione con sé stessa.
L’ottimo Pipitone propone un appello alla ragione come strumento per uscire dalla polarizazione sociale e ideologica contemporanea. Essa e implicitamente concepita come Vernunft in senso kantiano, ovvero come facoltà di principi, capace di orientare l’agire oltre la dimensione sensibile e di porre le condizioni per un dialogo critico e non dogmatico. Però questo appello alla razionalità si trova intensione con una descrizione empirica della polarizzazione stessa, presentata come fenomeno radicato nei meccanismi psicologici evolutivi (“cervello tribale”) e ulteriormente amplificato da strutture sociakli come i social media e gli algoritmi. Ne risulta un conflitto antinomico tra la razionalita pratica che presuppone libertà e possibilità di autodeterminazione (Freiheit), e la razionalità teoretica che rileva la presenza di determinismi psicologici e sistemici. L’autore sembra oscillare tra questi due registri senza risolverne la contradizione, rivendicando una postura razionale “esterna” rispetto al fenomeno analizzato, ma risultando inevitabilmente implicato nei medesimi processi di cui denuncia la pervasività. In termini kantiani, ciò corrisponde a una pretesa di giudizio sintetico a priori su fenomeni che eccedono l’ambito dell’esperienza possibile, generando una dialettica trascendentale non tematizzata. La proposta razionalista dell’autore si configura dunque come una risposta etico-morale che non riesce a rendere conto della forza strutturale dei condizionamenti empirici che essa stessa riconosce, lasciando l’antinomia irrisolta.
Anche sul piano aristotelico, si rileva uno squilibrio etico: il giusto mezzo viene spesso superato infavore di estremi emotivi o ideologici. Il richiamo a un pensiero critico, semplice e onesto, appare quindi come più una proposta morale più che come una soluzione teorica. In un contesto in cui ogni opinione si trasforma in bandiera, l’esercizio della ragione si configura come atto di coraggio, più che come automatismo .
Effettivamente meglio lasciare da parte l’astratta filosofia😉,e correre meno rischi puntando solamente sulla meno pericolosa psicologia.
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eh si eh … la complessità scoraggia, capisco 😂
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Gianvito, mi ha toccato nel vivo😂, ma è l’ultima volta che lo faccio; ci ho messo 40 minuti con tutti i neuroni attivi,quando di solito nel dopo lavoro ne tengo accesi solo 3 e ci metto 2min e 30 sec al massimo per commento.😉
Mi ha messo in abbastanza in difficoltà nel trovarle due “crepe” nel suo scritto.
La metto sul podio dopo Andrea Zhok ed Elena Basile tra quelli proposti da Infosannio. Nel senso che il primo quando scrive da filosofo è quasi inscalfibile,quando si traveste da politico e da semicomplottista invece è una pacchia; la seconda,al netto della sua visione geopolitica di cui non tengo conto (nel senso che non analizzo),e di qualche sventrone quando esce dal seminato, è quasi perfetta dal punto di vista della dialettica(intesa come materia aristotelica).Donna molto intelligente.
Buona serata
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Primum vivere, deinde philosophari.
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Niente Hobbes per me 😎Sto con gli esistenzialisti . Primum philosophari, altrimenti che razza di vivere è ?
Al limite, con Brecht: primum panem …
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