L’egemonia silenziosa di Meloni 

(di Gianvito Pipitone) – Un paradosso attraversa la politica italiana degli ultimi anni: più il governo si consolida, più si restringe. Non nei numeri, ma nella voce. E quella voce, da soprano solista e incontrastata, non ammette interferenze. È Giorgia Meloni. Il suo partito, Fratelli d’Italia, è diventato un coro di voci bianche. Gli alleati, i ministri, le figure dissonanti: neutralizzati, ridotti a comparse.

Il governo riflette la personalità dominante della sua leader. Un monolite che non tollera crepe, né deviazioni. Meloni non è solo presidente del Consiglio: è brand, narrazione, mood nazionale. Lo dimostra l’accoglienza al meeting di Comunione e Liberazione, tra applausi e commozione. Un’ovazione che non celebra solo un programma, ma una figura.

Meloni attorno a sé ha costruito un’aura di ordine e disciplina. Una sobrietà che rassicura, e proprio per questo piace. I sondaggi la premiano, il vento resta in poppa. Ma sotto la superficie levigata, dietro lo sguardo da sergente maggiore, si intravede un velo. Un’anima politica sfuggente, nutrita di ambivalenze, refrattaria alle categorie tradizionali.

Con oltre mille giorni di mandato, il governo Meloni ha superato ampiamente la durata media di un esecutivo italiano. Solo Berlusconi e Craxi hanno fatto meglio. Un risultato che, al di là delle valutazioni politiche, merita attenzione: per la tenuta, per la continuità, per la capacità di occupare lo spazio senza clamore.

La sua leadership è verticale, ma non autoritaria. Affettiva, ma priva di empatia. Meloni non cerca il consenso: lo pretende. E lo ottiene con una strategia comunicativa che mescola spontaneità e controllo, battute improvvise e silenzi chirurgici. Iconiche sui social le sue risate sguaiate, gli occhi strabuzzati, le espressioni calibrate. Tutto studiato per comunicare in maniera trasversale fallibilità, umanità, popolarità.

Il rapporto con la stampa è emblematico. Meloni parla poco, e quando lo fa, lo fa da sola. Senza contraddittorio, senza domande. Come se il confronto fosse una debolezza, non il fondamento della democrazia. La costruzione del personaggio è paradossalmente emotiva: una tensione costante tra vulnerabilità e dimostrazione di forza, tra rivendicazione e rimozione. La narrazione ufficiale la vuole figlia del popolo, della Garbatella, ma governa come una madre severa, inflessibile. Evoca il passato, ma lo lascia fuori campo. E quando quel passato bussa – busti del Duce, nostalgie dei camerati, Acca Larentia – lei si irrigidisce, si chiude. Come se fosse una ferita non rimarginata. O forse, semplicemente, per non dispiacere alla base nostalgica.

In questo scenario, il governo non appare più come un organismo politico, ma come una scenografia sospesa. I dossier si accumulano, le riforme si impantanano, le contraddizioni si moltiplicano. Eppure tutto resta immobile, come se l’azione fosse un disturbo. Il centro di gravità non è nella politica, ma nella figura iperattiva e silenziosa di Giorgia Meloni. Lei è il governo. E il governo è Giorgia Meloni. Un processo di assimilazione totale, dove l’identità dell’esecutivo si fonde con quella della sua leader.

La sobrietà è diventata il nuovo lusso. Meloni la indossa con naturale eleganza. Nessuna teatralità, niente urla, proclami, balconi o pugni sul tavolo. Solo calma e controllo. Una compostezza che non è passività, ma strategia chirurgica: occupare ogni spazio disponibile, senza mai fare troppo rumore.

La propaganda non è roboante, è insinuante. Non si impone, penetra lentamente, a cerchi concentrici. E proprio per questo è più efficace. Basta guardare alla Rai, un tempo teatro di pluralismi e contraddittori, oggi salotto monocromatico. Le nuove nomine, contestate dall’opposizione, hanno reso chiaro il messaggio: il pluralismo è un fastidio, la satira un rischio, il giornalismo un esercizio da moderare. Ordine, disciplina, sobrietà. Ma senza pianti e senza strepiti.

L’economia è il palcoscenico dove la narrazione si fa illusione. I dati sull’occupazione sventolati come trofei nascondono crepe profonde: contratti a termine in aumento, autonomi in calo, donne ai margini, Sud sospeso tra stagnazione e nuova emigrazione. Il governo rivendica sobriamente un milione di nuovi posti, ma sorvola sul fatto che molti siano part-time, instabili, sommersi. Parla di disoccupazione, ma omette il tasso di occupazione, dove l’Italia resta fanalino di coda in Europa.

Il costo della vita è il nodo più tangibile e doloroso. Sebbene l’inflazione appaia contenuta nei dati ufficiali, i rincari sui beni essenziali raccontano un’altra verità. Pane, pasta, frutta, olio, burro: aumenti fino al 68% negli ultimi tre anni. Il potere d’acquisto si erode, drammaticamente. E mentre le tensioni sociali crescono, il governo sceglie il silenzio.

Lo spread? Da oggetto di gaffe a trofeo. La riforma delle pensioni è ferma, quella della giustizia si aggroviglia, la scuola pubblica vede il suo budget ridursi mentre quello della difesa cresce. Le priorità sono chiare: la cultura è un orpello, la scuola un costo, la difesa una necessità. L’ordine vince sulla complessità.

La postura internazionale è un esercizio di equilibrismo retorico. Per l’Ucraina, ma anche per la pace. Amici di Israele, ma con cautela. Europeisti, ma con riserva. Atlantisti, ma con deferenza. Il risultato è una politica estera che ricorda la celebre parodia di Veltroni di Guzzanti: “Siamo per A, ma anche per B…”

Il rapporto con gli Stati Uniti ne è l’emblema. L’endorsement di Donald Trump è stato accolto con entusiasmo plastificato, ma non ha evitato all’Italia di incassare in silenzio il 15% di dazi orizzontali. Su Gaza, il silenzio è assordante. L’Italia, terzo fornitore di armi a Israele dopo USA e Germania, tace sul massacro. L’unico sussulto arriva quando il contingente Unifil viene colpito in Libano – ironia della sorte – con armamenti italiani. Solo allora Crosetto alza la voce, prima di sprofondare nuovamente nel silenzio.

Il caso Almasri ha rappresentato il momento più imbarazzante della politica estera italiana degli ultimi anni. Un pasticcio diplomatico che ha messo a nudo impreparazione, superficialità, mancanza di visione strategica. Un governo che si vuole sobrio e autorevole, ma che affronta i dossier più delicati con l’incertezza di chi improvvisa su un terreno minato. E mentre il mondo osserva, Meloni preferisce non commentare. Il silenzio, ancora una volta, come rifugio.

I doppi standard non sono incidenti: sono scelte consapevoli. Si chiude il Leoncavallo, si strizza l’occhio a CasaPound. Il ministro Giuli celebra l’ordine, ma inciampa nella nostalgia. CasaPound non elabora pensiero: esibisce muscoli. E nel racconto melonianamente corretto, tutto si amalgama in una narrazione rassicurante.

In un’Italia che ha smesso di farsi domande e si accontenta degli slogan, Giorgia Meloni incarna la figura ideale: non abbastanza radicale da intimorire, né troppo moderata da deludere. Una destra che non alza la voce, ma agisce, occupa, modella. Silenziosamente, giorno dopo giorno.

Il suo governo è il più longevo degli ultimi anni, ma anche il più silenzioso. E in quel silenzio risiede la sua forza: l’assenza di confronto si trasforma in presenza assoluta, in dominio narrativo.

Il “fenomeno Giorgia” – madre cristiana, leader di una destra sobria – è una costruzione identitaria fondata su tre pilastri: controllo della narrazione, gestione emotiva del potere, rimozione selettiva del passato. A questi si aggiunge una variabile non trascurabile: la fortuna di non avere un’opposizione efficace. In politica, l’assenza di un antagonista credibile è spesso il miglior alleato. E Meloni lo sa. Non ha bisogno di alzare la voce, perché nessuno la costringe a farlo. Non ha bisogno di difendersi, perché nessuno attacca davvero. Il vuoto intorno le permette di occupare tutto lo spazio disponibile, senza resistenza.

Se questa traiettoria non verrà disinnescata per tempo, non solo potrebbe condurla al record di 1409 giorni del governo Berlusconi II, ma rischia di compromettere in profondità gli equilibri costituzionali e le dinamiche di controllo che garantiscono la vitalità democratica del Paese.