Negli Stati Uniti assistiamo a una rivoluzione a tutti gli effetti salvo nel nome. Non ascrivibile all’uomo solo al comando. Concentrarsi sulla psicologia di Trump è il miglior modo per non capire il cambio di regime in corso

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Gli Stati Uniti d’America stanno finalmente cambiando regime dopo aver passato la vita a cercare di cambiare gli altrui. Trump sta pilotando il congedo dalla democrazia liberale, canonico marchio da esportazione. Non certo di origine, vista la cura dei padri fondatori nello scoraggiare la partecipazione popolare alla politica, anche per carenza di domanda. La costituzione non verte tanto sul testo quanto sull’American way of life, leggi perseguimento della felicità individuale. Quindi sul precetto che il governo federale deve interferire il meno possibile nelle vite dei cittadini.
Nella storia moderna non si ricorda potenza così aliena alla politica. Tanto che il coma da cui non sembra riprendersi il Congresso, già cuore del sistema, non suscita speciali emozioni. A eccitare il pubblico sono le spaccature che incrinano la nazione.
Molti americani non si riconoscono reciprocamente tali. Clima che facilita la rivoluzione dall’alto condotta da Trump applicando ricette elaborate nei dettagli dai suoi think tank di riferimento, Heritage Foundation in testa. Cucinate e servite all’istante via ordini esecutivi modellati sugli ukaz del Cremlino.
Il pennarello nero agitato con gusto dal presidente è l’icona mediatica del Trump bis, che non esclude il ter. Sul quale l’ultima parola dirà eventualmente la Corte Suprema, unico contropotere capace di complicare i piani dello scatenato tycoon. Se, come pare, la sua componente destrorsa si dimostrerà meno corriva del previsto verso la Casa Bianca, la prospettiva di un duello all’ultimo sangue fra i due veri centri del potere americano si farà concreta.
Assistiamo a una rivoluzione a tutti gli effetti salvo nel nome. Non ascrivibile all’uomo solo al comando. Concentrarsi sulla psicologia di Trump, indubbiamente eccentrica, con tratti patologici, è il miglior modo per non capire il cambio di regime in corso. L’accentramento delle decisioni sul presidente e sulla sua squadra, tutt’altro che omogenea, deriva dalla crisi di legittimazione del sistema più di quanto la produca.
Se ci concentriamo troppo sulla superficie istituzionale perdiamo di vista l’ambizione antropologica della galassia trumpiana: creare il nuovo homo americanus, ossia reinventare quello dei ruggenti anni Cinquanta, riferimento biografico di Trump e socioculturale delle teste d’uovo che lo cavalcano — o tentano di farlo. Il presidente attinge alla grammatica razzista che vede nei bianchi una maggioranza oppressa, che rischia di scadere a minoranza entro il 2050 se il vantato scudo anti-migranti non si mostrerà effettivo.
Il nuovo/vecchio americano dei sogni trumpisti è inteso libero dai liberal. Nemici assoluti. Traditori della patria, colpevoli di aver dimenticato i “deplorevoli” lavoratori bianchi per favorire migranti e minoranze colorate. Per di più tendenti a esprimersi con arroganza, saccenteria fuori posto visto lo stato di crisi in cui versa il Paese conquistato dai “deplorevoli” di ceto basso e modesta cultura.
Lo scollamento domestico è visibile nello sfilacciamento delle legature sociali e delle regole istituzionali, nella crisi di famiglie e comunità che sfocia nella devastante diffusione di droghe pesanti. Sullo sfondo, il fallimento della globalizzazione cantata e suonata da Clinton e successori, sia sul fronte economico interno sia coltivando l’utopia di americanizzare il mondo a colpi di mercatismo. Missione fondata sull’esorbitante privilegio del dollaro e sul ruolo di compratore di ultima istanza del surplus universale esibito dall’America liberal-imperiale. Nell’impossibilità di gestire un impero senza limiti, la repubblica denuncia una forse irreversibile crisi d’identità.
A noi provinciali dell’impero in regressione, la rivoluzione trumpiana impone costi cui non siamo preparati. Non solo materiali, come quelli prodotti dai dazi o dal rifinanziamento delle spese militari acquistando di preferenza armi americane, a scapito di quel che residua dello Stato sociale. Soprattutto psicologici e culturali, perché il capocordata ha ormai altre priorità, esterne al perimetro atlantico.
Se poi, come temiamo probabile, la svolta trumpiana non guarirà l’America dai suoi mali ma li accentuerà, saremo chiamati a prendere con la nostra testa decisioni fino a ieri impensabili. Anche a rischio di irritare il distratto principale e di affrontare mischie fra europei più svelti di noi nell’adattarsi al ciascuno per sé nessuno per tutti. Non il nostro forte.
Finalmente!
anche Caracciolo l’ha capita e scritta PERSINO NEL GIORNALACCIO NEO-CON DI REP.
Gli IUESEI stanno affondando sotto il peso di un immenso debito e di scadente credibilità, se gli stiamo incollati, come vorrebbero le oligarchie EU, a pagare il conto salatissimo saremo NOI.
FUCKIUESEI!!
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Trump è un prodotto americano . Una conseguenza non una causa .Le deplorevoli condizioni di un paese che ha continuato per secoli l’ ideologia delle capacità del singolo individuo che si impone alla massa e ne aumenta la capacità di vivere nel benessere , ha portato ad un paese indebitato a più non posso ma armato fino all’ impossibile che usa il suo potere militare per imporre il suo volere al mondo e ,in questo modo liberarsi dei suoi debiti.Noi europei siamo accondiscendenti perché incapaci di ribellarci al potere Usa e frustrati ed inconcludenti sfoghiamo la nostra rabbia verso la Russia che non c’entra niente con la nostra impotenza anzi sarebbe stata l’ unica angora di salvezza .
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Usa e Russia sono due ancore dello stesso peso e le ancore hanno il compito di affondare 🤔
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No, le ancore affondano per non fare andare alla deriva la barca.
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SOTTOMESSI E FELICI: IL CASO CLINICO DELL’ITALIA (E DELL’UE)
di Luka Petrilli – 30/08/2025
Si dice che il peso geopolitico di uno Stato si possa misurare dai trattati, gli accordi commerciali, le alleanze militari. Oggi, alle volte, possono bastare delle foto per intuire i rapporti di potere fra le nazioni. Recentemente i leader europei si sono recati alla Casa Bianca insieme al presidente ucraino e le foto uscite sulla stampa internazionale sono eloquenti e offrono un prezioso spunto di riflessione sul caso clinico dell’Italia (e dell’UE): felice di essere provincia.
I leader europei seduti davanti a Trump come scolari dal preside, Macron e Zelensky costretti ad ammirare la collezione di cappellini MAGA, Ursula Von der Leyen relegata in periferia, Meloni che sorride al presidente degli Stati Uniti come una bambina di fronte a Babbo Natale. Queste sono le immagini che la Casa Bianca e la stampa mondiale hanno diffuso dopo il recente vertice fra USA, UK, Ucraina e UE[1]. Non è vera politica estera: è scenografia. Ma questa scenografia dice simbolicamente molto: l’Europa è solo una comparsa.
Lo scatto principale sembra uscito da un set televisivo: Trump alla scrivania, accanto alla lavagna con disegnata la mappa dell’Ucraina, tutti gli altri a guardarlo concentrati, come concorrenti di un talent show davanti al giudice. Scena grottesca, eppure rivelatrice: l’Europa non è un soggetto politico, è oggetto. Applaude, sorride, annuisce o ringhia a comando.
L’Italia è entusiasta di questo ruolo, poiché il nostro è un caso clinico di provincialismo. Ci basta un “bravo” dall’estero e subito si apre lo spumante. Una copertina sul Time vale più di ogni misura finanziaria, una stretta di mano a Gates, una cena con Musk, un accordo con un fondo estero per la vendita dell’ennesima azienda strategica possono garantire il ruolo di statista illuminato.
Meloni compiace oggi Trump come in passato si sciolse per i complimenti di Biden. Renzi, ai tempi, sostenne Obama come una cheerleader, e di recente l’ex ministro della salute Speranza, si è fatto fotografare fra il pubblico, al convegno dei democratici USA, con tanto di cartello a sostegno di Kamala Harris.
L’esempio più lampante del provincialismo italiano può essere la reazione all’elezione di Mario Draghi come primo ministro, elogiato in pompa magna dalla stampa estera e diventato per questo orgoglio nazionale, l’orgasmo collettivo del sistema Italia, come se l’approvazione di stati terzi valesse più di qualsiasi consenso interno.
CHE GLI INTERESSI AMERICANI COINCIDANO O NO CON QUELLI ITALIANI ED EUROPEI E’, IN REALTA’, IRRILEVANTE. Ogni Paese maturo dovrebbe avere un solo criterio guida: difendere e promuovere gli interessi della collettività che rappresenta. Non è questione di campanilismo, ma di semplice buonsenso politico. Eppure, da decenni, in Italia funziona al contrario: non misuriamo le scelte di un governo sulla base dell’utilità per i cittadini, ma sulla quantità di APPLAUSI che arrivano dall’estero. Come se il giudizio esterno fosse il timbro che certifica la nostra legittimità.
Il punto, però, è che quel plauso non è mai innocente. Se un nostro leader viene celebrato su giornali americani, tedeschi o britannici, è perché qualcuno ha calcolato che le sue decisioni – economiche, militari, energetiche – porteranno vantaggi a loro. Nulla di male: fanno il loro mestiere, difendono i propri interessi. L’errore è nostro, quando scambiamo il loro entusiasmo per una medaglia da appuntare sul petto. È un riflesso provinciale: siamo convinti che il riconoscimento esterno equivalga automaticamente a un bene interno.
In realtà se fuori dai confini applaudono con troppa convinzione, la domanda da porsi sarebbe semplice – cosa ci guadagnano loro? E cosa rischiamo di perdere noi?
In Italia si preferisce brindare al plauso straniero, come se fossimo sempre in attesa di un “voto di gradimento” internazionale. Così ci comportiamo da colonia psicologica, prima ancora che geopolitica: non pretendiamo di contare, non pretendiamo di far valere la nostra opinione, ci basta essere considerati.
Altro che Europa potenza globale: i leader attuali sembrano in attesa che qualcun altro gli assegni un ruolo, come studenti tremanti davanti al professore, aspettando il verdetto del compito in classe. E così, felici di essere applauditi, accettiamo la parte che ci viene per bontà terza concessa, non notando che gli applausi che ci vengono concessi sono gli stessi che ricevono gli animali ammaestrati, o i guitti sul palcoscenico.
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In compenso gli americani ci divertono con i loro esperimenti balistici.
Vi siete mai chiesti quanti fogli di carta servono per fermare un proiettile?
Risposte brevi:
.22LR: 220
9 mm: 500
44 m: 140 (incredibile!)
5.56 mm: 2100
7.62 mm: 1000
12.7 mm: 3.200
Quindi se vi sparano addosso prendete una risma di carta da 500 fogli e fatene uno scudo, funziona come un giubbotto protezione livello III.
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e poi la risma non la posso manco più usare per andare al ©esso perché con i buchi rischio di sporcarmi le mani 🤔
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Mi chiedo se l’articolista avesse avuto gli stessi timori per la sorte della democrazia in USA nei tre anni in cui quel Paese è stato retto da un ” governo ombra” sconosciuto e non eletto che agiva al posto di un palese povero demente.
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