
(Domenico Quirico – lastampa.it) – Oggi è, senza mezzi termini, un momento epocale. Ma solo potenzialmente: perché si riduce ad un attimo, a un guizzo di Storia che domani potrebbe già esser diventato un rimorso, una occasione perduta, niente. Già, ad Anchorage avrebbe potuto essere ma non fu… Il Tempo è l’essenza della politica internazionale, sapere quel è il momento opportuno; non c’è miglior definizione della abilità politica.
I due leader che si incontrano oggi sono all’altezza di saper afferrare quel momento per attenuare la sorda effervescenza che, su sfondi di macerie, ha invaso il formicaio umano? O lo useranno solo per una proiezione di immagine che consolidi le loro dirigenze per motivi diversi discusse e traballanti?
Quei diavoli dei greci e dei romani avevano già compreso tutto, distinguendo tra le guerre per la sopravvivenza, in cui in gioco sono il territorio e la comunità (la lingua, il sangue e il suolo così cari al micidiale nazionalismo ottocentesco), e quelle per il predominio, i conflitti “de imperio’’ di Cicerone e che oggi definiremmo guerre di status.
Contrariamente a una interpretazione semplicistica, ma legata a concreti interessi, soprattutto di alcuni leader europei da Macron ai polacchi alla Meloni, alla mediocrissima burocrazia dell’Unione sguattera di tutte le cucine politiche, e ovviamente ai voraci pescecani economici della Guerra Lunga, quella che si svolge in Ucraina non è un massacro per alcuni chilometri di territorio.
È una guerra per la egemonia, la “epikrateia’’ dei greci, che si può tradurre come “comando’’, “potere eminente’’. Lo è nei progetti di chi l’ha scatenata con la illegale invasione del territorio dell’Ucraina. Un pretesto non un scopo: scatenando un “conflitto impossibile’’ in quello che era “il cuore della terra’’, svenando con brutalità darwiniana l’ordine monocratico esistente, vuole il riconoscimento da parte degli Stati Uniti, unico avversario che ritiene alla sua altezza, di una posizione eminente. Una identità di potenza che va al di la del controllo diretto di alcuni territori.
La egemonia è fatta di sfere di influenza, di alleati apparentemente sovrani ma legati a limiti da non superare, a allineamenti automatici. La lettura della storia dell’impero americano e di quello sovietico restituisce una spettacolare identità di metodo. L’interlocutore-nemico è dunque non Zelensky e la sua Ucraina che paga la logica della prepotenza che è di tutti gli imperi, democratici o autocratici. In questa logica si possono anche scambiare o restituire territori, l’importante è che si rispettino le regole della rispettiva egemonia.
Per questo il Donbass o una sua parte avrebbe meno valore dell’obbligo per Kiev di entrare nell’alleanza atlantica. Oppure, terribile possibilità, la guerra può continuare come problema secondario rispetto ad esempio una spartizione consensuale dell’Artico. La guerra del Vietnam non compromise i rapporti tra Usa e Urss.
La definizione della nuova “eikrateia’’ russa è il vero tema di oggi ad Anchorage, con ogni probabilità già definita nelle trattative dietro le quinte tra il Cremlino e Washington. Zelenzky costretto ad accontentarsi, in attesa di scoprirlo, di viaggetti in capitali di potenze defunte, lo ha capito subito: «Il summit di oggi è una vittoria di Putin».
È così. Quello che Putin cerca da venticinque anni con virulenza prima verbale poi militare non sono i territori perduti dell’Urss. È una fotografia: dove compaiono lui, il restauratore della potenza russa a qualsiasi costo, e il bislacco comandante in capo della superpotenza fino ieri egemone solitaria, che spiegano, fianco a fianco, non i destini di Pokrovsk o di Kharkov ma delle rispettive ingerenze nel mondo.
Il termine summit fu coniato per il linguaggio diplomatico da Churchill nel 1950, nel periodo più buio della guerra fredda. Il termine arcaico che usò per incontro, “parley’’, è un dotto riferimento shakesperiano, ovvero un faccia a faccia pericoloso tra nemici. Da tentare «perché in ogni caso non potrebbe peggiorare le cose». Il rischio aleggia su ogni vertice.
Nel caso di oggi è legato alla personalità dei due protagonisti che appartengono entrambi all’età dei prepotenti, insofferenti all’alfabeto della diplomazia classica, che impone interlocutori alla pari, e pazienza astuzia attendismo. Ma entrambi appartengono all’età dei prepotenti. Restano in bilico molte domande: quali illusioni si è fatto ciascuno dei due sull’avversario? Come vuol giocare la propria mano? Restano le trappole dei pregiudizi, del capriccio, della carreggiata dell’abitudine, la supponenza poco intelligente.
A Vienna nel 1961 Kruschev, un rivoluzionario sopravvissuto a Stalin, e Kennedy, il giovane miliardario americano, scoprirono di detestarsi: la conseguenza fu la crisi di Cuba e il più grande rischio corso dal mondo di precipitare nella apocalisse nucleare.
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Poiché esiste il rischio che questo vertice metta un punto finale al tremendo conflitto, i ” giornaloni” sono scatenati nel dipingere come un poveretto Trump in balìa di un ” superiore” Putin. Sono rivoltanti. VERRÀ UN GIORNO ( A.Manzoni, I promessi sposi, cap.VI)
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