(Di Gianvito Pipitone) – Nel grande teatro della geopolitica contemporanea, le potenze si muovono come personaggi di un dramma antico: ciascuna portatrice di un archetipo, di una maschera e di un destino diverso. 

L’Europa, con il suo passo misurato e il volto austero, è la vecchia zitella bacchettona: colta, raffinata, ma ossessionata dalle regole. Vive circondata da porcellane, nel ricordo dei fasti imperiali, si aggrappa ai trattati come fossero rosari, e corregge il mondo con la penna rossa della diplomazia. Ogni sua mossa è preceduta da consultazioni, commissioni, compromessi. L’Europa non agisce: delibera. E mentre il mondo accelera, lei resta ferma, indignata, elegante — ma sempre più irrilevante. Basta guardare il volto di Ursula von der Leyen: il linguaggio del corpo non mente quasi mai.

Accanto a lei, l’ex marito americano — incarnato da Trump, ma non solo — è il magnate impudente: un uomo che ha fatto fortuna con l’azzardo, che tratta la diplomazia come una trattativa d’affari, e che si presenta al ricevimento globale con qualche bicchiere di troppo, il colletto sbottonato e il portafoglio ben in vista. Non cerca approvazione, non teme il giudizio, e considera ogni alleanza una transazione. È l’America che non corteggia più, ma compra. Che non promette, ma minaccia. Che non costruisce ponti, li fa pagare. È il potere che ha abbandonato ogni pudore e che non nasconde più i propri muscoli. È la faccia della democrazia di emanazione populista.

Intanto, nell’angolo della sala, lontano dai riflettori, si stagliano due figure inquietanti che non ballano: osservano. 

Putin è il bullo silenzioso e rancoroso, il mobster implacabile dell’Est. Faccia d’angelo e sguardo da nerd: ha l’aria di uno di quelli che, da ragazzino bullizzato, ha imparato a incassare, a osservare, a covare rancore. E che oggi, per ripicca, con metodo glaciale, guida la sua banda di scagnozzi.

Non parla, non sorride, non si muove se non per colpire. È il tipo che non partecipa alla festa, ma manda i suoi uomini a sabotarla. La sua forza è nella freddezza, nella spietatezza, nella capacità di agire senza clamore. Dove l’Europa discute e l’America minaccia, Putin avvelena i pozzi, destabilizza, occupa. È il gelo che si insinua sotto le porte chiuse, il potere che non chiede permesso.

Un po’ più in disparte sta Xi Jinping, l’opportunista dal volto impassibile. Si presenta con il sorriso neutro, il vestito impeccabile, e la voce calma del karma. Ma dietro quella compostezza si celano lucidità e calcolo millimetrico. Non alza mai la voce, ma sposta le pedine con precisione chirurgica. È il giocatore di Risiko con l’obiettivo più ambizioso. Non cerca lo scontro diretto, ma la conquista silenziosa. Dove Putin è il pugno, Xi è la rete. Dove Trump è il colpo di scena, Xi è la trama invisibile. È il potere che non si impone, ma si insinua. Che non conquista, ma ingloba.

E poi, dietro le colonne di questa fantasmagorica Ballroom, in una stanza appartata con tutti i comfort, c’è un quinto gruppo che non ha ancora fatto il suo ingresso, ma che si prepara. 

Le autarchie e i sultanati illuminati del mondo islamico non sono più i fratelli minori del mondo musulmano, poveri e cadetti, relegati ai margini della scena. Sono i nuovi ricchi, i nuovi ambiziosi, i nuovi interpreti di un Islam che non si accontenta più di essere evocato come minaccia o come problema. Sono monarchie petrolifere, emirati tecnologici, regimi autoritari con visioni millenarie e portafogli senza fondo. Hanno imparato a parlare il linguaggio del potere: investono, influenzano, seducono.

Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti: non sono più semplici spettatori. Sono i fratelli maggiori dell’Islam, quelli che hanno saputo trasformare il deserto in metropoli, la tradizione in soft power, la religione in leva geopolitica. Hanno costruito musei, università, satelliti. Hanno comprato squadre di calcio, città, alleanze. E ora bussano alla porta della Storia. Non più a nome di un’ideologia, ma a nome proprio. Non più come rappresentanti di un Islam radicale, ma come interpreti di un Islam strategico, lucido, ambizioso.

La domanda è: la Storia aprirà?

Perché se c’è una cosa che questi sultanati hanno capito, è che il tempo dell’attesa è finito. Non vogliono più essere evocati come “mondo arabo” o “Islam politico”. Vogliono essere protagonisti. E se la porta resterà chiusa, non è detto che non costruiscano un ingresso alternativo. Magari con il denaro, magari con l’influenza, si spera non con il fuoco.

In quella stessa stanza, un tavolo più decentrato a parte è dedicato ai “nuovi assertivi”. 

Non più paria, ma protagonisti. Narendra Modi guida l’India, la nazione più popolosa del mondo, con disciplina e ambizione: un nazionalismo moderno che fonde tecnologia, religione e pragmatismo. E, dettaglio non trascurabile, equidistante da Trump e Putin, ma con un “piccolo problema regionale” chiamato Cina.

E dall’altro lato, Sulimano il Magnifico — Recep Tayyip Erdoğan — il Sultano della Turchia, che non si nasconde più. Da leader regionale a mediatore globale, ha trasformato la Turchia da ponte a crocevia. Gioca su più tavoli, sfida tutti, ottiene da ciascuno, disegnandosi a poco a poco un ruolo di ponte fra gli Stati Uniti e il Medio Oriente, e forse fra Putin e il resto del mondo.

Insomma, il ballo si è notevolmente affollato. Qualcuno si è autoinvitato, qualche altro si è imbucato (no, non è Renzi), e la musica è cambiata. I nuovi arrivati non chiedono di essere invitati: si presentano, si impongono, si fanno spazio. Non c’è buttafuori che tenga.

L’Europa corregge, l’America impone, la Russia minaccia, la Cina conquista, l’Islam attende, l’India calcola, la Turchia manovra. 

Il mondo non è più un duetto, né un quartetto: è una festa dissonante, un banchetto di ambizioni, una coreografia instabile dove ogni passo è una dichiarazione di potere. E la Storia?  Non è una porta chiusa. E forse chi sa bussare — con forza, con astuzia, con fede o con furbizia — prima o poi entra. Ma non tutti escono allo stesso modo. E l’Italia? Rimane sulla soglia. Meloni fa stretching fuori dalla ballroom, lo sguardo teso verso la sala da ballo, sperando che qualcuno la inviti a entrare. Per ora, le luci sono accese, la musica suona, ma nessuno le ha ancora fatto cenno.