Caravaggio, Gentileschi & C. Dal 600 il tema della fuga vira su toni cupi, ma Gesù non è uno scheletro e Maria ha ancora latte: non come i palestinesi stremati da Israele

(di Tomaso Montanari – ilfattoquotidiano.it) – “Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi; scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi. Mangia, bevi e rinfrancati”. A parlare è la Vergine Maria, e siamo nella diciannovesima sura del Corano. Il ruscello e la palma non fanno parte del racconto evangelico, ma abitano tutta l’iconografia cristiana di un episodio inconfondibile della vita di Gesù, il ‘riposo nella fuga in Egitto’, dipinto da generazioni e generazioni di pittori. Quando, scorrendo l’elenco infinito dei bambini assassinati da Israele a Gaza, troviamo il nome Issa, ebbene quel nome in italiano suona così: Gesù. E non è un nome cristiano, ma islamico: perché le nostre culture, le nostre religioni, i nostri libri sacri, si intrecciano, nei secoli dei secoli. Un’antichissima tradizione, che affonda le sue radici nei vangeli apocrifi, identifica in Egitto una serie di tappe della fuga della Sacra Famiglia. Ma oggi vorrei ricordare la via attraverso la quale raggiunsero quel paese, partendo da Betlemme: con ogni probabilità, la Via Maris, la via antichissima che si snodava (e ancora si snoderebbe) lungo la costa. Una via che passava per la città di Gaza, e per l’attuale Striscia: fino appunto ai confini con l’Egitto.

Più di tutti, gli artisti figurativi hanno amato il tema della fuga in Egitto, perché permetteva loro di declinare la storia sacra in senso aneddotico: inventando, più che rappresentando. E perché le figure si univano a un paesaggio: anch’esso liberamente inventato, vista la scarsissima conoscenza diretta della Terra Santa. E proprio queste invenzioni, molto più tardi, fecero da modello alla ridefinizione coloniale di quella terra, popolata di specie arboree europee per farla assomigliare alla sua rappresentazione artistica appunto europea (ce lo ricorda Paola Caridi nel suo mirabile Gelso di Gerusalemme). Ma nel Seicento, sull’onda di Caravaggio, la fuga in Egitto si carica di ansie, contrasti, paure. Non solo il riposo in un’oasi, con le palme che si piegano a servire Maria, ma tutta la cruda realtà di una famiglia di profughi in fuga dalla guerra. Orazio Gentileschi replicò con varianti una sua strepitosa invenzione almeno cinque volte. Giuseppe, vinto dalla stanchezza è riverso sul proprio bagaglio, sprofondato in un sonno senza grazia e senza decoro. La Vergine Maria, anch’essa stesa in terra fuor d’ogni consuetudine, allatta un Gesù ormai grandicello, che, tutto nudo, guarda fisso in camera, verso di noi: come se ci avesse sorpreso a turbare la sua intimità familiare. E poi c’è il muro: il vero protagonista del quadro. Un muro cadente, che sta perdendo il suo intonaco: un rudere senza alcuna nobiltà, non certo una rovina classica. Un muro in cui si risolve tutto il paesaggio, giacché solo la testa lanosa dell’asino e un bellissimo cielo pieno di soffici nuvole suggeriscono che il mondo non finisce proprio lì. E oggi come possiamo non immaginare che questo ‘riposo tra le macerie’ rappresenti la sosta a Gaza, lunga la strada per l’Egitto? La Sacra Famiglia a Gaza, ecco un titolo adatto per questo quadro vertiginoso. La Gaza di oggi, ovviamente: ridotta dal genocidio israeliano ad un cumulo di macerie. Una Gaza in cui la Sacra Famiglia apparirebbe non come vittima, ma come privilegiata: perché Gesù non pare uno scheletro, e Maria ha ancora il latte. Perché hanno un bagaglio, qualcosa. Abbiamo fatto peggio di Erode: abbiamo devastato una delle città della Bibbia. Ai sedicenti cristiani che governano il mondo occidentale insediati nelle destre fasciste, bisognerebbe ricordare che dove oggi Israele bombarda, uccide, affama, un giorno hanno posto il piede Maria, Giuseppe e Gesù. Tengono in non cale la vita umana dei palestinesi, si indignano solo quando un proiettile colpisce una croce e una parrocchia: ma Gaza è tutta santa. Tutta terra santa.

Una santità sopraffatta dalle tenebre, come se Gesù fosse stato raggiunto e ucciso dai soldati di Erode. E così fu, e così è: perché “tutte le volte che lo avrete fatto ad uno di questi piccoli, lo avrete fatto a me”. La notte domina la Fuga in Egitto dipinta nel 1609 a Roma dal tedesco Adam Elsheimer: qui il primato della natura, caro alla tradizione artistica nordica, si sposa perfettamente con una nuova capacità di osservarla (anche con il nuovo ‘occhiale’ galileiano) e di leggerne la luce, qualcosa che l’artista tedesco doveva invece alla conoscenza dell’opera di Caravaggio. Ma, proprio come per Caravaggio, questa rinnovata attenzione per la natura non si risolve in una pittura ‘scientifica’, bensì in una altissima meditazione pittorica sulla perdita di centralità dell’uomo, letteralmente inghiottito in una notte esistenziale in cui è possibile procedere solo a tentoni. Quella in cui siamo sprofondati tutti: senza possibilità di raggiungere l’Egitto. Che per gli abitanti di Gaza rappresenta la sopravvivenza fisica. Per noi, quella morale.