(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Ospedali allo stremo, neonati denutriti, medici nel mirino. Il racconto di un chirurgo britannico squarcia il velo sul quotidiano orrore vissuto dai civili a Gaza. Ma dietro ogni gesto di violenza c’è una precisa logica di potere.

C’è un’eco fredda nelle parole del professor Nick Maynard, chirurgo volontario britannico, tornato da quattro settimane trascorse nell’inferno dell’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza. Il suo racconto non è solo lamento umanitario, ma denuncia sistemica: malnutrizione diffusa tra i bambini, latte per neonati confiscato all’ingresso nel Paese, ferite chirurgiche inferte con precisione a civili indifesi. Secondo il medico, i soldati israeliani colpiscono i civili ai punti di distribuzione del cibo come in un “tiro al bersaglio”. I proiettili mirano al collo, al petto, all’addome. A volte, ai genitali, come se la sterilizzazione forzata diventasse una nuova arma invisibile del conflitto.

Il quadro che emerge è quello di una violenza che non è più solo bellica, ma disciplinare: colpire il corpo dei bambini per fiaccare la resistenza di una popolazione. Una strategia che, se confermata, va ben oltre i limiti dell’etica militare.

Il disastro umanitario: una crisi provocata

L’ONU parla chiaro: un bambino su cinque è denutrito. Ma i numeri sono solo l’ombra del dramma reale. Il sistema sanitario è al collasso. I medici operano in condizioni disumane, privi di materiale, spesso affamati essi stessi. E non è un effetto collaterale del conflitto: è un progetto che si nutre di cinismo strategico. I punti di distribuzione gestiti dalla GHF – ufficialmente sostenuti da Israele e Stati Uniti – sono stati piazzati deliberatamente in zone militari, fuori dalla portata di occhi indipendenti. Inaccessibili ai giornalisti, sfuggono alla narrazione pubblica ma non al mirino dei cecchini.

Secondo Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa, quei punti non sono altro che “trappole mortali sadiche”. Un’accusa pesantissima che inchioda non solo Tel Aviv, ma l’intero meccanismo di sostegno occidentale alla gestione dell’assedio.

Geopolitica dell’assedio: il corpo come messaggio

Dal punto di vista geopolitico, la crisi umanitaria di Gaza non è solo il prodotto di una guerra prolungata, ma uno strumento negoziale. Israele utilizza la soglia del dolore civile per calibrare la pressione diplomatica internazionale. Lascia passare l’aiuto “al contagocce”, come ha denunciato il Guardian, per dimostrare di avere il controllo, di essere il filtro unico tra l’umanitario e il catastrofico. In questo modo si costruisce una narrazione binaria: o si sostiene la sicurezza di Israele, o si alimenta il “terrorismo” di Hamas.

Il problema è che questa strategia si sta ormai rivoltando contro il suo stesso disegno. Il sostegno internazionale a Israele – già in calo dopo le operazioni militari dell’ottobre 2023 – si erode ulteriormente ogni volta che un medico occidentale testimonia le atrocità viste sul campo.

Il fronte geoeconomico: l’assedio come leva finanziaria

Dietro la carestia programmata si muovono anche logiche geoeconomiche. L’assedio prolungato trasforma Gaza in una variabile nella partita più ampia tra Israele e i suoi partner regionali. Bloccando gli aiuti, si condizionano le relazioni con Egitto, Qatar, Turchia, e si crea un precedente inquietante nella gestione dei conflitti: la fame come leva geopolitica.

Israele continua a beneficiare di aiuti economici e militari dagli Stati Uniti, mentre riduce la propria esposizione al rischio diplomatico internazionale con un’attenta strategia di “plausible deniability”: nega ogni accusa, promette inchieste, ma non cambia nulla. Il linguaggio è sempre quello dell’ambiguità operativa, dell’eccezione permanente.

La reazione israeliana: negare, rinviare, discolparsi

La risposta delle Forze di Difesa Israeliane è stata immediata e prevedibile: negazione assoluta, promesse d’indagini, affermazione di intenti umanitari. È la grammatica standard di ogni comunicato di guerra moderno. Ma nella realtà, nessuna inchiesta ha mai prodotto svolte. L’opacità dei “GHF Points”, l’assenza di accesso giornalistico, l’inaccessibilità dei rapporti militari: tutto concorre a un sistema di impunità operativa.

Conclusione: Gaza laboratorio del mondo post-etico

La vera tragedia non è solo nei numeri dei morti, nei bambini che bevono acqua zuccherata al posto del latte, nei corpi mutilati. È nell’assuefazione. Gaza non è più solo un luogo: è un esperimento globale. Un laboratorio in cui si misura quanto dolore una popolazione può sopportare prima di essere spezzata. E quanto a lungo il mondo può restare a guardare.

Il caso del dottor Maynard è emblematico: la verità emerge solo quando un testimone esterno, bianco, anglosassone, con accesso ai media occidentali, rompe il silenzio. Ma quanti Maynard servono ancora prima che qualcuno chiami questa realtà col suo vero nome?