Da Ryanair a Tesla, l’occasione di riportare il fedifrago nei propri social è vista come un divertimento

(di Selvaggia Lucarelli – ilfattoquotidiano.it) – Se dovessi psicanalizzare lo strano periodo che stiamo vivendo – quello in cui la tecnologia corre in avanti e noi retrocediamo culturalmente – partirei da una delle contraddizioni più distopiche degli ultimi anni: si moltiplicano campagne, progetti scolastici e spot per insegnare ai ragazzi il rispetto online, a riconoscere il cyberbullismo, a non mortificare il prossimo, deridere, diffondere materiale privato altrui senza consenso. E mentre bacchettiamo i giovani ricordando l’importanza della responsabilità digitale, nel mondo degli adulti e dei media si apre spesso una finestra ipocrita e spalancata sull’opposto: il diritto a entrare nella vita altrui, con atteggiamenti da bulli feroci, su scala mondiale.
Basti pensare a cosa è accaduto di recente con il video di due sconosciuti a un concerto dei Coldplay: una semplice immagine rubata da una kiss cam, che diventa dileggio globale a cui partecipano non solo i ragazzini che andrebbero educati, ma soprattutto i presunti educatori. E cioè gli adulti, coloro che hanno “memizzato” quel frame nei modi più ignobili e beceri: c’è chi ha accostato la foto dell’amante a quella della moglie di lui ironizzando sul fatto che l’amante fosse brutta e vecchia. C’è chi ha venduto magliette con le facce dei due, chi ha replicato le scene negli stadi sotto forma di parodia e poi ci sono alcune grandi aziende che hanno messo in piedi una cinica operazione di real time marketing: hanno sfruttato cioè l’episodio virale per rafforzare il brand sui social e farsi pubblicità gratuita sull’umiliazione di due perfetti sconosciuti.
Ryanair, Tesla, Netflix, X e St. Louis, per esempio, hanno realizzato tweet e post che sbeffeggiavano la coppia di amanti, sfruttando quello che ormai è globalmente definito #ColdplayGate. Eppure, quello che è successo, analizzato con lucidità, non fa ridere per niente. Il fatto che tutti abbiano utilizzato “la vergogna” altrui per creare contenuti legittima l’idea che chiunque, in qualsiasi momento, possa essere usato a scopi di intrattenimento e di dileggio, anche contro la propria volontà. Senza averlo scelto, senza essere popolare. Improvvisamente, tutti i discorsi su quanto i personaggi noti abbiano comunque diritto alla loro privacy sembra preistoria. Non ne hanno più diritto neppure gli sconosciuti. Se Lady Diana fosse un personaggio contemporaneo, oggi probabilmente non morirebbe inseguita dai paparazzi, perché la violenza non è più l’inseguimento fisico, una moto che non ti molla e l’ansia di chi si sente braccato per strada. La violenza oggi è l’inseguimento sociale costante, non si scappa da una moto, ma dallo sguardo collettivo filtrato da telefoni e social. La morte di Diana ci sembrò il punto di rottura dell’invadenza mediatica. Oggi, però, siamo noi a fare da paparazzi agli altri e a noi stessi. La scena della coppia al concerto dei Coldplay ne è la prova: non servono i tabloid, basta un video TikTok, un post su X, e milioni di sconosciuti diventano più violenti dei paparazzi, per i quali almeno l’inseguimento era una fonte di reddito. È un cortocircuito di cui non abbiamo neppure coscienza: i ragazzi, come dicevo, devono imparare a non bullizzare online, mentre gli adulti giocano a fare i bulli, i detective sentimentali, travolgendo la privacy altrui senza alcuno scrupolo. A tal proposito, giorni fa, il solito Fabrizio Corona ha pubblicato degli audio di Raoul Bova e delle chat private tra Bova e una ragazza che non era sua moglie. Un’invasione feroce e gratuita nella privacy dell’attore che andrebbe stigmatizzata, visto che tra le altre cose non sarebbe neppure lecito diffondere conversazioni private.
E invece è accaduto che la solita Ryanair ci ha fatto un tweet spiritoso, che centinaia di persone (adulte) hanno rilanciato gli audio e le chat sbeffeggiando Bova per i suoi toni stucchevoli, facendone carne da macello social. E l’ho visto fare perfino da giornalisti. Una violenza normalizzata, distribuita in frammenti minuscoli: una stories qui, un meme là, un like alle parodie sull’argomento e grasse risate sull’umiliazione del giorno. Del resto, in un momento storico in cui non esistono più confini tra cronaca, gossip e violenza digitale, il “format” di Corona replica lo stesso meccanismo che ha travolto la coppia al concerto dei Coldplay: nessuna notizia, nessuna analisi, nessuna informazione. Solo intrattenimento a base di umiliazione. E, dispiace dirlo, il giornalismo non ha alcun ruolo critico su questi meccanismi, ma fa da cassa di risonanza. Tutti coloro che rilanciano questi contenuti con finto distacco, non si limitano a contribuire a umiliare pubblicamente qualcuno, ma sdoganano un metodo. Una forma di complicità passiva, mascherata pure da neutralità. Quasi preferisco chi si sporca le mani, almeno ha il coraggio di assumersi la responsabilità. Chi invece rilancia con titoli vaghi e mani pulite, chi si nasconde dietro la foglia di fico della cronaca, è comunque dentro fino al collo. È la complicità elegante, asettica, quella che non urla ma normalizza. Quella che non crea lo scandalo, ma gli spiana la strada. Che schifezza.
Non lo sapevo di Bova. Ora lo so grazie alla Lucarelli.
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Sarebbe anche giusto come principio, anzi lo è. Ma la lezioncina non può venire proprio da lei. Quella che ha fatto carne di porco di persone perbene come il dr. De Donno, in primis, per non parlare della persecuzione che ha fatto a chiunque non fosse d’accordo con le sue idee idiote e ignoranti sui vaccini.
Ha fatto cacciare Montesano da una trasmissione e mi fermo qui su tutti gli arbitri che ha gestito nei confronti di chiunque non fosse allineato come lei.
Mi fermo qui per non darle neanche troppa importanza perché come giornalista fa abbastanza pena (certo scrive bene ma non basta), non sa cos’è la deontologia e il rispetto della privacy che tanto invoca!
Una persona squallida!
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Se faccio una foto per strada e involontariamente riprendo una persona potrei essere denunciato. Non occorre il consenso per questi signori?
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