(di Michele Serra – repubblica.it) – “Chi decide qual è il limite tra l’espressione della propria opinione e la propaganda politica?”, domanda polemicamente il presidente della Campania De Luca difendendo la scelta di invitare a Caserta un direttore d’orchestra molto amico di Putin, il maestro Gergiev. È una domanda legittima e necessaria, alla luce di recenti stupidità che hanno portato a boicottare la cultura russa in quanto russa, con assurda confusione tra un governo autocratico, un’aggressione imperialista e un popolo di lunga storia.

A rendere un po’ meno legittima la domanda è però la figura stessa di Gergiev. In un Paese nel quale gli oppositori sono in galera, o privati dei diritti politici, essere putiniano, per un artista, non è “un’opinione”. È, nella migliore delle ipotesi, una maniera per continuare a lavorare. Nella peggiore — e sembra essere il caso in questione — è la glorificazione di un regime che dell’arte ha una visione nazionalista e sì, di pura propaganda “patriottica”. Escludendo e perseguitando, in quanto antipatriottico, chiunque non stia a quel gioco.

De Luca, a riprova della neutralità attiva che reputa utile per superare i conflitti, cita i concerti napoletani di febbraio che hanno visto esibirsi assieme palestinesi e israeliani, russi e ucraini. Molto bello e molto giusto: ma il vero interlocutore di Gergiev, in chiave di superamento dei conflitti, sarebbe un artista russo dissidente, o esule, tagliato fuori dalla benevolenza e dai milioni che il Cremlino elargisce ai suoi fedeli.

A proposito di conflitti, e di angherie dei forti contro i deboli, gli oppositori russi sono (da anni) tra le vittime meno citate e meno difese. Eppure è proprio nel loro nome che qualche dubbio sull’invito a Gergiev avrebbe dovuto nascere. Il problema non sono i russi presenti, sono i russi assenti.