
(di Michele Serra – repubblica.it) – Forse è vero che i due trentenni inglesi che hanno abbattuto, parecchio ubriachi, un celebre albero secolare, con grande scandalo di un’opinione pubblica molto “verde”, lo hanno fatto solo “per diventare famosi”, come suggerisce la severa sentenza di condanna a quattro anni. È lo stesso probabile movente dell’assassino di John Lennon — il non famoso che uccide il famosissimo per regolare i conti — e di non poche nefandezze (pestaggi, bullismi, violenze di branco) fatte con l’esplicito scopo di avere un gran numero di clic, che è diventata l’unità di misura della fama.
Una delle grandi domande dell’epoca sarebbe dunque: ma che cosa ha di così orribile, l’anonimato? Come hanno potuto sopravvivere alla non-fama, alla normalità di vite magari piene, magari virtuose, e però consumate nella più assoluta privatezza, miliardi di nostri antenati? Erano frustrati senza saperlo? Erano dannati incapaci di immaginare una redenzione?
Oppure siamo noi contemporanei ad avere ribaltato le regole e mortificato la fama, per sua natura piuttosto rara e legata a meriti speciali e imprese eccezionali, declassandola a diritto universale? Così che chi ne è sprovvisto si vede nella necessità di provvedere a ottenerla con ogni mezzo, nella convinzione che la fama dei già famosi sia usurpata e dunque ognuno possa averla con uno strappo improvviso e violento, come si fa con lo scippo?
È un mistero, questo, la cui soluzione non è probabilmente alla nostra portata. Saranno i posteri a capirci qualcosa, magari quando la fama sarà così banalizzata, così inflazionata, che alcune avanguardie (rigorosamente anonime) riscopriranno il privilegio di vivere da sconosciuti, e conosciuti solamente a se stessi e ai pochi amati, e che ti amano.