Il generale che ama farsi chiamare «camerata» ha fatto scattare l’ultima polemica postando una immagine zoomata delle gambe di Carola Rackete: ma le sue uscite discusse ormai non si contano

(di Fabrizio Roncone – corriere.it) – Camerata Vannacci!
E lui, il vicesegretario della Lega, ecco che si gira svelto con un’occhiata rapace, complice, orgogliosa, accogliente (adora essere chiamato camerata).
Già questo, no?
Ma sappiamo tutti che c’è dell’altro, serve altro per spiegare la rapida carriera politica e la drammatica deriva di un generale della Folgore con il mito di Benito Mussolini («Per me, resta uno statista»), sagoma di capopopolo arrivato da un mondo brutale e oscuro che quando parla fa ormai sempre più spavento e che a Matteo Salvini è invece piaciuto subito, se l’è fatto piacere, ne intuisce le micidiali potenzialità elettorali e quindi lo candida, con mossa spregiudicata e contro il parere indignato di mezzo partito — da Zaia a Fedriga, da Giorgetti a Romeo, erano tutti ostili — alle ultime europee: è un lugubre azzardo che però porta mezzo milione di preferenze e, di fatto, salva la Lega dal tracollo.
E adesso? L’onorevole camerata Roberto Vannacci se ne sta comodo a Strasburgo, lo stipendio da europarlamentare pesa più del doppio di quello che gli garantiva l’esercito e così lassù scorrazza, diciamo, senza freni, al punto che i lepenisti — no, dico: i lepenisti, mica mammolette qualsiasi — hanno dovuto suggerirgli un filo di prudenza: «Sei troppo scorretto politicamente, stai esagerando». Ma lui, niente. È perdutamente dentro il suo personaggio, una maschera tragica, indomabile, pronto a straparlare, provocare, demolire, aggredire. Anche le donne. In un miscuglio di squadrismo mediatico, sessismo, body shaming in purezza. Restiamo alla cronaca recente. Avete presente cos’è accaduto con la collega Carola Rackete, no? Lei annuncia le dimissioni dall’Europarlamento e lui, subito, l’altro giorno, la saluta postando tre foto: in una, ci sono i polpacci — non depilati — dell’attivista tedesca. Aggiunge pure un commento: «Non ci mancherai. Ora speriamo che anche Ilaria Salis e Mimmo Lucano seguano l’esempio».
È un uomo così, il camerata Vannacci. L’hanno votato perché è così. Salvini l’ha scelto e gli ha dato i gradi del Carroccio perché è così. Come, del resto, s’era abbastanza intuito da subito. Un paio d’anni fa. Quando comincia a circolare «Il mondo al contrario», un suo pamphlet — alla fine, però, 400 mila copie vendute su Amazon e altrettante diffuse con file pirata — pieno di robaccia che ondeggia tra omofobia, negazionismo e razzismo. Bisognava andarci alle presentazioni. E sentirlo. «Macché patriarcato! La verità è che cresciamo degli smidollati. Se un ragazzo non studia, a lavorare!». Applausi, grida di evviva. Braccia tese nel saluto romano. Era arrivato, finalmente. L’aspettavano. Lui allora si ringalluzziva. E attaccava con uno dei suoi racconti: «… E fu nel 1975, a Parigi, che cominciai a venire a contatto, quotidianamente, con persone di colore. Ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità, tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mano sopra la loro…». Brusio, risatine. E cosa scopriva, generale? «Beh, cercavo di capire se la loro pelle, al tatto, fosse più o meno rugosa della nostra». La folla destrorsa, a questo punto, esplodeva in sghignazzi eccitati. Così lui prendeva fiato, impostava la mascella — sono tutti un po’ fissati con la mascella, gli è rimasta questa cosa che piaceva tanto pure al Duce — e allora andava giù duro. «Non sono razzista. Ma da ottomila anni l’italiano stereotipato è bianco». La premessa per poi sostenere che la nostra Paola Egonu, nata a Cittadella e formidabile campionessa della squadra di pallavolo azzurra medaglia d’oro a Parigi, «ha tratti somatici che, purtroppo, non rappresentano l’italianità». Lo portano in trionfo nelle sale congressi degli alberghi. Diventa famoso. Fonda un movimento nerastro. Il ministro della Difesa Guido Crosetto annusa il tanfo e prende, con durezza, le distanze. Lo fanno finire sotto processo. Ma al generale squilla il cellulare: «Sono Matteo, vediamoci. Ho qualcosa d’interessante da proporle».
Lui, intanto, baldanzoso conferma: «L’ho scritto e lo penso: cari omosessuali, normali non siete, fatevene una ragione». Poi va a Zona bianca, su Retequattro, e rassicura: «Un figlio gay? Non siamo mica a Sparta che li buttiamo giù dalla rupe». Ma ti guarda sempre un po’ così: starà dicendo la verità? Si rammarica: «… purtroppo non si possono più pronunciare termini che, fino a poco tempo fa, potevamo usare liberamente». Tipo? «Invertito, frocio, checca, ricchione…».
È a quest’uomo che Salvini, nei corridoi di Strasburgo, chiede di tenere i rapporti con Afd, l’ultra destra tedesca. Lui, per facilitare il dialogo, comincia a salutare incrociando gli indici, evoca la X Flottiglia Mas (e nessuno pensa certo agli eroi del porto d’Alessandria d’Egitto: ma a quelli che aderirono alla Repubblica di Salò, per andare ad aiutare i nazisti a strappare le unghie ai partigiani e a impiccarli poi agli alberi all’ingresso dei paesi). Generale, trasforma il suo movimento in un partito? Lui cincischia. A Viterbo organizza un’adunata per capire se può marciare su Roma: però si presenta solo un gruppetto di fascistelli sfigati. E poi il capo sta per promuoverlo vicesegretario. No. Meglio stare fermi. Per ora.
Domani, non si sa. O la Lega finisce per trasformarsi, definitivamente, in un partito di estrema destra sotto la guida di Salvini. Oppure — dicono — potrebbe pensarci lui. Il generale. Un uomo duro, d’ordine, un vero maschio italico, tutto muscoli e disciplina (con l’unico vezzo di andare in spiaggia indossando certe strane vestagliette fru fru: foto cult sul mare di Viareggio, già da tempo, in molti siti gay-friendly).