Il ministro provoca spesso caos ma è il parafulmine del governo. La riforma della giustizia che porta il suo nome è la sua garanzia. Per questo Meloni non può permettersi le sue dimissioni

Il tribunale dei ministri ha concluso le sue indagini e comunicherà nelle prossime ore le decisioni alla procura di Roma. Coinvolto nell'indagine il ministro della Giustiza Carlo Nordio

(Giulia Merlo – editorialedomani.it) – «Sin novedad», è la frase scelta dal guardasigilli Carlo Nordio. A incalzarlo è la senatrice di Italia Viva, Raffaella Paita, che con abilità introduce il tema del caso Almasri in premessa di una interrogazione su altro. E Nordio – in giacca blu marino, camicia grigia e cravatta scura con bandiera italiana, al posto dei completi ben più colorati per cui è noto – non si scompone e sfodera il suo consueto citazionismo in lingua straniera. Un vezzo cui ha abituato non solo il parlamento ma anche il suo staff.

In questo caso la locuzione spagnola che significa «tutto tranquillo» e viene spesso usata in gergo militare – altro campo in cui Nordio è ferrato, da autore per Mondadori di due romanzi sulla Seconda guerra mondiale – per intendere che tutto procede come dovrebbe. «Nessuna fuga», anzi «quel che ho detto in parlamento lo direi ancora oggi, il chiacchiericcio sulla stampa è infondato».

Nonostante l’aplomb da «galantuomo», come lo definisce la stessa Paita, il ministro è cosciente che sul dicastero della Giustizia si stiano addensando nubi temporalesche che minacciano di abbattersi non solo su di lui, ma anche sul vertice del suo Gabinetto, Giusi Bartolozzi. Il clima è più che teso e non certo da quando le notizie sono filtrate sulla stampa. Quello ha procurato ulteriori fastidi, manifestati – questi sì – anche dal guardasigilli in parlamento, parlando di «eventuali violazioni di atti riservati di cui non si riesce a capire come qualcuno sia entrato in possesso».

Ma ci sono almeno due fazioni dentro via Arenula. Da una parte i fedelissimi che rispondono al livello più politico e vedono nell’escalation mediatica di questi giorni una mossa della magistratura per sabotare la riforma della separazione delle carriere, colpendone chi le ha dato il nome.

Dall’altra i tecnici, che invece analizzano più freddamente il pasticcio in corso e ne identificano la causa: la grande verticalizzazione imposta dalla risoluta Bartolozzi, il cui rapporto molto stretto con Nordio ha reso l’ufficio del ministro una fortezza inespugnabile senza prima il suo placet. Proprio questo, e non è certo notizia di oggi, ha allontanato molti dirigenti. Prima il capo di gabinetto, Alberto Rizzo, poi il capo del Dap, Giovanni Russo. Ultimo in ordine di tempo Luigi Birritteri, proprio il capo del dipartimento degli affari di giustizia che ha gestito il caso Almasri.

le gaffes

Eppure, su Bartolozzi Nordio non ha mai voluto sentire ragioni: a suo tempo ha difeso la propria scelta autonoma di nominarla da vice a capo di Gabinetto, nonostante i dubbi manifestati dal potente sottosegretario Alfredo Mantovano che avrebbe preferito un nome più ortodosso. Ora che proprio Bartolozzi sarebbe il nome in bilico, la linea che trapela da via Arenula è silenzio e gesso. Minimizzare tutto, lasciando a Giulia Bongiorno (che difende i ministri) qualsiasi iniziativa concreta.

Eppure è un dato di fatto: Nordio, individuato come padre nobile di Fratelli d’Italia tanto da essersi guadagnato una “candidatura” al Quirinale prima ancora dello scranno da ministro, è anche stato spesso fonte di imbarazzo per il governo. Il suo istinto per la risposta polemica condita dal citazionismo lo ha tradito in più di una occasione.

Se stimolato dalle opposizioni (che ormai hanno imparato come farlo scattare) il ministro è noto per le gaffes: dalle donne invitate «a rifugiarsi in chiesa o in farmacia» per difendersi da uomini violenti, alle polemiche sulle intercettazioni perché «i mafiosi non parlano al telefono», fino ai femminicidi colpa di «etnie che magari non hanno la nostra stessa sensibilità».

Non sempre, però, ha fatto tutto da solo. Nordio è stato anche il parafulmine dei maggiori pasticci che si sono abbattuti sul governo: il caso Cospito, che ha fatto tremare due pezzi da novanta del mondo meloniano come il sottosegretario Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli, e ora il caso Almasri.

Con il paradosso di cui a palazzo Chigi sono ben coscienti: il ministro meno controllabile nelle sue spesso improvvide dichiarazioni pubbliche e alla guida di un dicastero attraversato da violente divisioni interne è anche il volto della riforma su cui Meloni punterà la sua credibilità nel 2026 con il referendum.

Impossibile farlo saltare: il suo futuro è legato a quello della separazione delle carriere e, quando la premier ha deciso di fargliela presentare, sapeva che lo avrebbe cementato a via Arenula. Proprio su questo si basa la tranquillità, vera o ostentata, dell’ex magistrato di Treviso. Con la speranza che la sua inamovibilità valga anche per la sua collaboratrice più fidata.