Il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati

Giorgia Meloni

(Michele Ainis – repubblica.it) – Nella beata incoscienza del pubblico pagante, sta per scattare la trappola perfetta. Come funziona? Con un gioco illusionistico. Tu mostri per mesi una riforma — il premierato — che capovolge l’universo mondo, o almeno il mondo disegnato dai costituenti. S’accende un dibattito infinito, con tonnellate d’interviste, editoriali, audizioni parlamentari, bla bla bla. Strada facendo (ma forse lo sapevi già da subito) t’accorgi che quella riforma può diventare un harakiri per il tuo esecutivo, come accadde a Renzi, e in precedenza pure a Berlusconi, castigati entrambi da un referendum popolare. E allora, mentre le pupille degli astanti sono ancora illuminate dalla madre di tutte le riforme, tu concepisci il figlio: una giustizia tutta nuova. Battezzandola proprio quando il decreto sicurezza innalza un monumento all’ingiustizia, quando le carceri trasformano ogni pena giusta in una tortura ingiusta, come ha ricordato ieri il presidente Mattarella.

A suo tempo (un anno fa) la creatura nasce al riparo da sguardi indiscreti, durante una riunione di 40 minuti fra 8 persone. Ma da allora in poi sgambetta veloce fra i banchi delle assemblee parlamentari. Pestando qualche piede, sicché s’alza il lamento dei contusi. Il Consiglio superiore della magistratura vota un parere di dissenso a larga maggioranza (24 consiglieri). L’Associazione nazionale magistrati proclama uno sciopero, con manifestazioni e assemblee pubbliche in 29 città. Gli avvocati invece applaudono, mentre il Consiglio nazionale forense protesta contro la protesta del corpo giudiziario. L’opposizione s’oppone, d’altronde è il suo mestiere. Ma senza troppa convinzione, anche perché gli animi sono tutti concentrati sulle guerre, sui dazi di Trump, sulla crisi della legalità internazionale.

Nel frattempo la riforma corre come un treno. Il disegno di legge costituzionale era stato presentato il 13 giugno 2024. Il 16 gennaio 2025 la Camera lo approva — senza correggerne una virgola — in prima lettura. E oggi in Senato andrà in scena il rush finale, dopo aver sterilizzato i 1300 emendamenti scritti dalle minoranze attraverso la tecnica del «canguro», altra creatura fantasmatica. Servirà poi la seconda lettura di ambedue le Camere, ma anche questo è un esito scontato.

Da qui la nuova pelle del testo costituzionale, con 7 articoli che cambiano registro. Ma da qui, anche e soprattutto, un bel trappolone per gli avversari dell’esecutivo. Perché questi ultimi, ostacolando la riforma, si trovano a vestire l’abito dei conservatori, sono costretti — loro malgrado — a difendere il sistema giudiziario così come funziona adesso, o meglio non funziona. Perché il restyling della giustizia distoglie l’attenzione dal naufragio sul quale è incappato il premierato, trasformando l’insuccesso in un successo. E perché, alla fine della giostra, ci attende un referendum. Lo vincerà il governo, un risultato diverso sarebbe una sorpresa. Intanto, nel referendum costituzionale non c’è il quorum, sicché l’opposizione non può restituire la pariglia rispetto ai referendum sulla cittadinanza e sul lavoro dei primi di giugno, cavalcando l’astensione. E in secondo luogo l’oggetto di quel referendum non saranno i poteri del Premier, non sarà il faccione di Giorgia Meloni, che oggi piace e magari domani non piace. No, sarà il consenso verso il potere giudiziario, che da tempo vola rasoterra: ne ha fiducia soltanto il 39% degli italiani, attesta un sondaggio Tecnè diffuso a febbraio. E il 68% degli intervistati voterebbe a favore di questa riforma, dichiara il medesimo sondaggio.

Conclusione: il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati. Ma in questo scenario c’è una responsabilità delle stesse opposizioni. Avrebbero dovuto scegliere una strategia diversa dal muro contro muro. Dopotutto, la separazione delle carriere è già in circolo nel nostro ordinamento: con la riforma Cartabia del 2022 il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante può avvenire una sola volta in tutta la carriera, e con l’obbligo di cambiare sede; tanto che l’1% appena dei magistrati trasmigra da una funzione all’altra. Dunque si tratta d’una riforma manifesto, sostanzialmente innocua nelle sue concrete conseguenze. Nonché appoggiata da varie personalità della sinistra, in nome d’un garantismo spesso declamato ma assai poco praticato. Non è il caso, insomma, di farne una crociata.

A sua volta, l’uso del sorteggio per formare gli organi d’autogoverno è forse l’unico sistema per arginare le correnti giudiziarie, dopo tanti tentativi andati a vuoto. La deriva correntizia, la spartizione dei ruoli di vertice in virtù del peso che assumono le diverse associazioni dei magistrati, nuoce al prestigio stesso del corpo giudiziario. Mentre il sorteggio rappresenta la più antica procedura democratica, già in uso nell’Atene del V secolo a.C. Magari la ricetta Nordio è troppo radicale, magari sarebbe stato meglio conservare una quota di membri elettivi, senza infliggere un’umiliazione al potere giudiziario. E magari le opposizioni avrebbero potuto suggerirlo con qualche emendamento costruttivo, anziché puramente distruttivo. Chissà, forse Togliatti avrebbe scelto questa posizione. Lui le trappole le fiutava, invece di caderci dentro mani e piedi.