
(di Jacopo Tondelli – glistatigenerali.com) – Benjamin Netanyahu viene chiamato vezzosamente Bibi, fin da un’infanzia che, nel suo caso, conta perfino di più che per ciascuno di noi. Il premier d’Israele è contemporaneamente molte cose: un leader intrinsecamente populista fin da prima di essere un politico di professione, ma anche un raffinato e colto tecnocrate, che dà del tu alla teoria economica e a quella politica; un capo di governo che non ha nessuna remora nell’usare la brutalità e la violenza militare fino a contare i morti a decine di migliaia e un tattico politicista esasperato, dedito a tessere alleanze con ogni partitino israeliano, e a fare fund raising in ogni raffinato salotto nuiorchese; un uomo di potere che non si è mai rassegnato alla propria sconfitta politica, come se occupare una poltrona fosse l’unica cosa che conta, e un governante che ha interpretato e insieme forzato le trasformazioni della società come pochi altri, legando alle proprie scelte di policy il cambiamento del suo piccolo paese e, data la rilevanza di quest’ultimo, del mondo intero; il perenne interprete di uno stato di eccezione che sospende continuamente regole non sospendibili in democrazia e il capo di governo democraticamente eletto più longevo della storia delle democrazie occidentali; un ebreo laico nella vita personale, e il miglior garante della sempre più composita galassia nazional-religiosa che, ormai da decenni, orienta in maniera sempre più esplicita la politica coloniale e predatoria di Israele in Cisgiordania. Sono solo alcune delle contraddizioni che il percorso di “Bibi” sintetizza in un equilibrio sinistramente perfetto.
Guardare dentro alla sua storia e al suo percorso, anche adesso, proprio adesso che ha scatenato una guerra su larga scala contro il Grande Nemico di sempre, l’Iran degli Ayatollah, ci porta oltre la doverosa condanna e indiganzione per la distruzione letale e massiva di Gaza, il cui futuro è scomparso da ogni discorso seguendo la drammatica realtà di una storia iniziata ben prima del 7 Ottobre del 2023. Rileggere le pagine della sua carriera, sfogliare il suo album di famiglia ci serve anche, piuttosto, a guardare una storia perfino più grande del rilevante e terribile ruolo del premier israeliano. Perché il passato di Bibi Netanyahu, quello privato e quello pubblico, sono inestricabilmente intrecciati tra di loro ma anche e soprattutto strettamente legati a quel che è successo dopo: fino a oggi, fino a domani. Tutto si può dire infatti, di Netanyahu, ma non che gli manchino, da decenni, la chiarezza delle intenzioni e la trasparenza e la coerenza nel realizzarle. Se tutto quanto è successo, sta succedendo e succederà è realtà c’è un mondo intero che l’ha sentito iniziare, l’ha visto succedere, l’ha lasciato accadere, nella migliore delle ipotesi.
Il Netanyahu del 1986 e quello del 2022
In questi giorni ha “ripreso vita”, in rete, un vecchio documento video che racconta con precisione chi era il giovane Netanyahu. Nel 1986, intervistato da Giovanni Minoli a Mixer, aveva 37 anni, era ambasciatore d’Israele presso le Nazioni Unite e mancavano dieci anni alla sua prima elezione a primo ministro d’Israele. In quell’occasione si mostra più insicuro di quel che è diventato col tempo, ma il Netanyahu di allora resta sostanzialmente coerente coi principi declinati di lì in avanti, fino a oggi. Incalzato da Minoli – giusto sottolineare il rigore dell’intervistatore, a patto di ricordare che quelle erano l’Italia e la Rai di Bettino Craxi, schierato apertamente al fianco dell’OLP di Arafat – l’ambasciatore Netanyahu sciorina un rosario classico della dottrina di allora: anticomunismo viscerale, equazione senza distinguo tra OLP e terrorismo, impossibilità di alcun riconoscimento delle ragioni di movimenti che usano la violenza politica. Poi, nello specifico della vicenda israelo-palestinese, declina tutti i classici della propaganda israeliana: i profughi Israele li ha integrati, i paesi arabi no, quindi è tutta colpa loro; i morti civili causati da Israele sono tragici incidenti, quelli morti per mano palestinese sono invece frutto di deliberata volontà omicida; Israele non dirotta aerei, loro sì; Arafat è addirittura “l’inventore del terrorismo”; il diritto e le organizzazioni internazionali possono dire quello che vogliono, ma per Israele l’unica versione che conta è la propria.
È interessante, subito dopo aver rivisto quella vecchia intervista, far correre avanti il nastro della vita pubblica dell’ex ambasciatore di oltre 35 anni, arrivando al dicembre del 2022: altro mondo, altra intervista. “Tutti sanno che sono il primo ministro che è stato più a lungo in carica in una democrazia occidentale. Ma quello che non tutti sanno è che sono l’unico politico della storia occidentale che sia politicamente morto non una, ma due volte, e due volte è tornato a governare”. A intervistarlo questa volta è un adorante Peter Robinson, che era stato giovanissimo ghost writer di Ronald Reagan e del suo vice, George Bush. Ai tempi di questa seconda intervista, il 73enne Netanyahu lavorava alla formazione del governo che lo avrebbe riportato alla guida d’Israele proprio all’inizio della legislatura che dura ancora oggi. In oltre un’ora di conversazione, mostra l’aria trionfante e serena di chi crede che nessuno discuterà i suoi successi, di chi si avvia a tornare alla guida del proprio paese senza dubbi sulla rotta ascendente, quasi trionfante, che lo attende. Racconta serafico il boom della start-up economy che ha trasformato Tel Aviv in una New York col mare – “mio figlio da bambino mi diceva triste che noi avevamo solo due grattacieli, e invece, adesso…” – e molte altre vittorie economiche – “abbiamo superato la Germania nel Pil pro-capite, sai?”. Racconta il taglio delle tasse, la curva di Laffer come un economista liberale reaganian-thatcheriano, sorride benevolo quando l’intervistatore gli cita quei losers socialistoidi che credevano al modello Kibbutz. “Facciamo più figli di tutti, e li fanno soprattutto i laici, non gli arabi o i religiosi”, gongola, e secondo le statistiche “siamo tra i più felici al mondo”.
Tra le cose che colpiscono, nell’intervista, c’è la centralità della figura del padre: occupa la prima parte della conversazione – “un grande storico del mondo ebraico e del mondo intero” – e poi torna come un metronomo, a ritmare i passaggi più importanti della visione del mondo di Bibi Netanyahu. “A cento anni, nel 2010, fece uno straordinario discorso pubblico, e disse che bisognava fermare l’Iran”. La sua storia familiare, anche se ci riporta indietro di oltre un secolo, merita qualche cenno, perchè spiega la longeva carriera del Netanyahu che conosciamo tutti.
Il Padre di Netanyahu (senza dimenticare il nonno)
La traiettoria politica e ideologica del primo ministro più longevo d’Israele e dell’intero mondo democratico è iniziata molto prima che lui nascesse, e affonda le radici nella sua storia famigliare. Ne è l’erede e il prodotto, innegabilmente, di successo. Dell’importanza del padre, Benzion Netanyahu, abbiamo detto e diremo ancora, ma anche il padre di Bibi ha avuto un padre importante, che si chiamava Nathan Milejkowski, nato in Bielorussia nel 1879 e morto nel 1935 a Gerusalemme, dov’era emigrato ben prima della nascita dello Stato di Israele. Nathan fu destinato alla carriera rabbinica da bambino, e già adolescente, mentre frequentava la Yeshiva, divenne ardente sostenitore dell’idea sionista. Si socializza alla politica, dunque, nella Russia dei Pogrom e a vent’anni va a predicare sionismo in Siberia. Il sionismo interpretato da un religioso, che non concepiva altra ipotesi per uno stato ebraico che non fosse in terra di Palestina. Fin dalle origini della famiglia politica Netanyahu, dunque, c’è un’esplicita adesione a un’idea politica di sionismo diversa e poi contrapposta a quella di Teodor Herzl. Il fondatore del sionismo politico infatti pensava fosse necessario dare uno stato agli ebrei per ragioni politiche, a fronte dell’esplodere delle persecuzioni subite soprattutto nell’Europa orientale, ispirandosi a ideali di autodeterminazione dei popoli che si diffondevano in quegli anni in tutta Europa, mentre la famiglia Netanyahu stava dalla parte di chi rivendicava invece una specialità assoluta del diritto ebraico non ad avere uno stato, ma ad avere una terra, quella datagli dalla tradizione biblica che va dal Mediterraneo al fiume Giordano, e anche oltre. Un’aspirazione ancora diversa, molto diversa, da quella degli ebrei religiosi che avevano iniziato ad arrivare in Palestina dal Nord e dall’est Europa nei secoli precedenti. A loro di avere uno Stato che non fosse quello instaurato dall’arrivo del Messia non importava proprio niente, volevano solo stabilirsi in zona immaginando un suo arrivo imminente. L’onda però era talmente alta che nel censimento del 1922, realizzato dal protettorato inglese, a Gerusalemme gli ebrei erano addirittura la maggioranza relativa. Alcuni erano sionisti, altri “semplicemente” aspettavano il Messia.
Se per Herzl dunque la nascita dello stato ebraico poteva avvenire in Palestina ma anche in Uganda, attraverso gli strumenti della negoziazione politica, per I Netanyahu – titolo di un libro straordinario di Joshua Cohen poco conosciuto in Italia, meritoriamente importato da Codice Edizione dopo aver vinto il Pulitzer alcuni anni fa negli USA – non c’era nulla da negoziare, ma solo da riprendersi quel che ingiustamente la storia e i gentili avevano sottratto agli ebrei.
Non è un caso, infatti, se Benzion Netanyahu – padre di Bibi, che immigrando in Israele cambia il cognome e da “uomo del mulino” (Milejkowski) quale si chiamava la pamiglia in Bielorussia prima e in Polonia poi, si rinomina con modestia in “Dono di Dio”, cioè Netanyahu – dopo i primi anni di predicazione e lotta in Palestina, diventa negli USA il braccio destro di Zeev Jabotinski, fondatore del sionismo revisionista, una forma di ultranazionalismo ebraico apertamente affascinato dall’idea di stato del fascismo di Mussolini. Nell’intervista a Robinson, Bibi celebra a lungo, come ha fatto per tutta la vita, la grandezza di storico del padre. In realtà, sull’importanza dei lavori storici di Benzion ci sono opinioni differenti, e una critica radicale è raffigurata proprio ne I Netanyahu, che citavamo poco sopra. Netanyahu Senior sarebbe stato in realtà marginalizzato, alla Hebrew University ancora prima della nascita dello Stato, in ragione del fatto che, attorno, c’erano davvero molte delle migliori menti di una generazione straordinaria, quella di Gershom Scholem e Martin Buber, ad esempio. E per questo il padre di Bibi si sarebbe trovato poi a cercare una cattedra fuori da Israele, supportato sì da molte lettere di raccomandazione che erano state firmate a Gerusalemme ma con lo scopo non secondario di vedere predicare la sua storiografia a qualche migliaia di chilometri di distanza. E cosa studiò, per tutta vita, Benzion? Studiò l’eternità dell’antisemitismo e, potremmo dire, la sua immutabilità. Dall’antigiudaismo cristiano delle origini, passando per le persecuzioni medievali nella penisola iberica (materia di specializzazione di Benzion), arrivando ai pogrom e poi perfino ad Auschwitz, la teoria di fondo è che l’antisemitismo è una cosa sola, unica, che ha ovviamente conosciuto diversi gradi di violenza e tecnologizzazione. Ma è da sempre e per sempre la stessa cosa, e l’unica soluzione è uno stato degli ebrei, armato e forte, più di tutto l’odio inestinguibile che sempre colpirà il popolo ebraico. Uno stato – secondo Jabonsky, il maestro politico di Benzion, fondatore appunto di un sionismo di estrema destra – che doveva possibilmente convincere tutti gli ebrei del mondo a diventare suoi cittadini: “Se non distruggete la diaspora”, disse una volta “sarà lei a distruggere Israele”.
Le macerie del processo di pace, Hamas e Iran nemici perfetti
Dal 1996, anno della sua prima premiership, Netanyahu sul processo di pace ha sempre avuto parole chiare: “No al processo di pace coi palestinesi. Mai uno stato palestinese accanto a Israele”. Il concetto semplice, comprensibile, a ben guardare assomiglia alle ricette facili per i problemi complessi che tipicamente vengono propalate dai populisti di mezzo mondo. Mentre la sinistra israeliana si rompeva la testa (e le ossa) su una complicatissima road map per portare Arafat dalla guerriglia alla trattativa, e provava a tenere insieme le pulsioni interne, un diritto internazionale già malconcio, Clinton e i pezzi di una società che nel frattempo iniziava ad allontanarsi da quella che era stata, la destra del giovane Bibi diceva, semplicemente, di no. E diceva che il processo di pace era una minaccia alla stabilità e sicurezza di Israele e degli ebrei. Più in là di lui si spinse il colono allora diciannovenne Itamar Ben Gvir, che minacciò esplicitamente il Premio Nobel per la pace: “Siamo arrivati alla sua macchina, arriveremo anche a lui”. Due settimane dopo, Igal Amir, terrorista venticinquenne, uccise Rabin. Intanto Ben Gvir si laureò in giurisprudenza e divenne avvocato di coloni ed estremisti di destra israeliani, e sarebbe in fondo solo uno dei tanti se non fosse che oggi, nel governo Netanyahu, fa il ministro per la Sicurezza Nazionale, riassumendo in sè un percorso che ha portato la destra più estrema e filo-terroristica a diventare parte della costituency di governo dell’Israele di Netanyahu dopo che Ariel Sharon – non Shimon Peres – aveva messo fuori legge diversi partiti di quell’area politica.
Il processo di pace, probabilmente, è morto con Rabin e i tentativi degli anni a venire – dalle negoziazioni tra Ehud Barak e un Arafat meno determinato e più inaffidabile che mai, alle decisioni unilaterali di sgomberare la follia delle colonie di Gaza, da parte di Sharon – sono stati solo riscaldamenti di un rancio diventato per tutti immangiabile. Del resto, ormai, come una spina nel fianco di qualunque ipotesi stava proprio Netanyahu, che alle elezioni che si tengono l’anno dopo l’assassinio di Rabin viene eletto premier, dimostrando di fatto che la società israeliana non si sarebbe probabilmente sottratta a una pace negoziata dal generale Rabin, ma fidandosi solo di lui. Ad aiutare Bibi nella sua prima elezione furono 61 morti civili israeliani in nove giorni, caduti in quattro diversi attentati suicidi organizzati e realizzati da Hamas, che proseguiva così la sua duplice battaglia: contro l’OLP di Arafat che tra fatiche e contraddizioni provava a negoziare una pace, e contro quel pezzo di classe dirigente israeliana che, tra altrettante fatiche e contraddizioni, lavorava per la soluzione dei due stati. Erano i nemici di Hamas e, a ben guardare, gli stessi di Netanyahu e della sua visione politica. Che trae vantaggio e alimentazione costanti da chi, irriducibilmente e del tutto irrealisticamente, dice che l’entità sionista deve essere combattuta fino alla completa liberazione della Palestina. La stessa cosa, naturalmente, è vera anche all’inverso, e se Hamas il nemico perfetto di Netanyahu, il premier, con la sua politica brutale fondata esclusivamente sulla maggior forza, è il perfetto catalizzatore di ogni estremismo avverso. Il successo di lungo periodo di Bibi, al di là di qualche battuta di arresto contingente, è strutturale e culturale: il processo di pace, la nascita dello Stato Palestinese, sparisce dal novero delle possibilità e non vi rientra mai più. Hamas, complici inettitudini e corruttela dilagante nella Olp di Arafat e dei suoi eredi, diventa l’unico interlocutore reale per la società palestinese, si prende Gaza e si sarebbe presa anche la Cisgiordania, sempre più mangiata dalle colonie ebraiche, se non fosse che dal 2007 il vecchissimo Abu Mazen, con una scusa o con l’altra, non permette ai palestinesi di votare.
Così, una vittoria dopo l’altra, una resurrezione dopo l’altra, arriviamo all’oggi. Un oggi nel quale, a ben guardare, alle due morti politiche superate e vanitosamente raccontate a Robinson, se ne può per il momento aggiungere una terza, o forse perfino una quarta. Quando il 7 Ottobre irrompe con la crudeltà di mille morti e centinaia di ostaggi sulla scena della politica israeliana, Netanyahu è abbarbicato alla solita poltrona, mentre le piazze israeliane di un’opposizione sempre più grande protestano contro una riforma costituzionale fortemente voluta proprio da lui. Quella protesta scompare, travolta dallo stato di eccezione e dalla nuova guerra. Le macerie di Gaza e le accuse della Giustizia Penale Internazionale in una società minimamente cosciente non potrebbero cancellare la clamorosa falla nel sistema di sicurezza nazionale che ha reso possibile il massacro del 7 Ottobre, da un lato, e l’abominio di decine di migliaia di morti, e centinaia di migliaia di affamati e stremati dalla fame nella Striscia di Gaza. Ma in una società militarizzata ed educata al culto della forza e della sopravvivenza può succedere perfino questo. E quando ormai Gaza era un cumulo di macerie, è scattata l’ora dell’Iran, il vecchio pallino di Netanyahu, con cui il primo Trump aveva stracciato gli accordi firmati da Obama e il secondo, ondivago, sembra accettare di poter chiudere i conti per interposto Bibi, dopo aver applaudito alla guerra lampo vinta contro gli Hezbollah decapitandone il vertice con scene che sembrano uscite da una serie sul Mossad.
Il futuro che non c’è, la vittoria di Netanyahu
Una volta, tanti anni fa, in una colonia ebraica in Cisgiordania, vicino a Ramallah, un militare israeliano nazional-religioso (di quelli che appunto credono che il diritto a stare lì stia nella Bibbia e in nient’altro), mentre citavo le leggi internazionali, mi rise in faccia e mi disse: “Il diritto internazionale per noi non è rilevante”. Non capii, allora, che non era il pensiero di una minoranza fanatica ma che, con diversi accenti, stava diventando l’architrave politica di un paese – e forse di un mondo. Cos’erano, e cosa saranno, in fondo, gli Accordi di Abramo sui quali tanto puntava Netanyahu, se non la sostituzione dei principi generali, del diritto internazionale universale, con accordi bilaterali tra parti, fondate sugli affari? Cos’erano e cosa saranno, non tanto per un Israele di cui qui abbiamo provato a raccontare il campione, ma per paesi arabi che, dopo decenni passati a raccontare retoricamente la causa palestinese, erano – e probabilmente sono ancora – disponibili a stringere alleanze d’affari con l’ex Satana Sionista, senza nemmeno chiedere in cambio, per i palestinesi, un fazzoletto di terra bucherellata e la dignità di poter avere in tasca un passaporto?
Con commovente ottimismo, qualche osservatore guarda a Israele, questo Israele in guerra con l’Iran e tra le macerie fumanti di Gaza, con le lenti dei sondaggi, e spiega che, se si votasse oggi, Netanyahu non avrebbe la maggioranza. Quando si voterà, ragionevolmente l’anno prossimo, vedremo. Quel che però non si vede, con queste lenti, è che Netanyahu ha comunque vinto il futuro – per molti, molti anni – negando la possibilità che sia davvero diverso dal lungo passato che ha costruito in questi decenni. Non l’ha fatto da solo, certo: al suo fianco e sostegno c’è una società israeliana sempre più convinta che non ci sia alternativa al militarismo violento, sempre più tollerante con la costosa follia nazional religiosa, sempre più festante mentre raccoglie i frutti di ricchezza delle sue politiche neoliberali e che oggi sogna di poter riprendere il filo del discorso start-up/turismo/surf-in-spiaggia dove l’aveva lasciato un paio di anni fa. Al suo fianco, nell’opera, c’erano anche i nemici, lo abbiamo detto: gli islamisti di Hamas, abbandonati come tutti i palestinesi dal mondo arabo, e finiti dritti nelle braccia degli Ayatollah sciiti iraniani, che con la tradizione multietnica e multiculturale palestinese c’entrano invero poco. E poi, certo, c’è Trump, che lo supporta a modo suo, nelle operazioni di liquidazioni: ma sarebbe disonesto dire che prima, con i democratici alla Casa Bianca, era tutta un’altra musica. Ma insomma, al di là di quanti alleati ha saputo allevare e costruire, nel soppesare i meriti del disastro, a Bibi Netanyahu la storia dovrà riconoscere una grossa parte. Perchè se molti gli hanno dato una mano, questo presente che si apre con l’Iran in ginocchio e i palestinesi rasi al suolo non somigli al disegno che persegue da prima ancora di aver iniziato a fare politica.
È un presente, quello d’Israele, che non crede ad alcun futuro di pace e stabilità, ma solo alla gestione attraverso la forza della propria sicurezza. Naturalmente, uno stato e una società fondata su questi principi espellono i diversi, i critici, i meno convinti. Tra le statistiche che non vengono mai citate da Bibi e dai suoi cantori, c’è il tasso di emigrazione senza ritorno che stabilmente riguarda i più giovani. Decine di migliaia, ogni anno, che se ne vanno negli USA o in Europa, per non tornare più. Ma anche questo fa parte del gioco, e del disegno: la guerra infinita ha bisogno di gente motivata, la propaganda permanente necessità di una società omogenea. Non che in Israele non si possa dissentire o criticare, per carità, mica siamo a Gaza. Però meno sono i dissenzienti e i critici, e meglio è. Ieri e oggi c’era la guerra, non è il momento di questionare troppo. E domani? Domani c’è la guerra. Morto un nemico se ne fa un altro. Di tutto il resto si potrà parlare. Quando? Dopo. Dopo cosa? Dopo che avremo sconfitto il nemico.
E quando sarà? “E chi lo sa, sono millenni che si rigenera, sempre uguale e sempre più forte”, avrebbe detto Benzion Netanyahu.
PAOLO CONSIGLIO
Chiudere Hormuz: la minaccia iraniana che nessuno può fermare.
Non serve una testata nucleare: Teheran può mettere in ginocchio il commercio degli USA e del mondo in 24 ore.
C’è una guerra che non ha bisogno di bombe per esplodere. Basta una strozzatura lunga 39 chilometri per far tremare il mondo. Si chiama Stretto di Hormuz. E se l’Iran decidesse di chiuderlo, non ci sarebbe presidente, re o generale che potrebbe fermare il caos.
Il regime di Teheran non ha bisogno di lanciare testate nucleari. Gli basta una manciata di mine, due pattugliatori veloci e la determinazione di chi si sente messo all’angolo. È il suo deterrente silenzioso. È la sua “atomica commerciale”.
Secondo quanto riportato dal New York Times, se gli Stati Uniti dovessero intervenire direttamente nel conflitto tra Israele e Iran, i pasdaran potrebbero disseminare lo Stretto di Hormuz di ordigni navali, bloccando le navi da guerra americane e paralizzando i flussi commerciali.
Perché Hormuz non è solo un passaggio geografico: è la gola stretta da cui passa il respiro energetico del mondo. Ogni giorno, da lì, transitano il greggio saudita, il gas del Qatar, le fortune dei petrostati. Fermarlo significherebbe stringere il nodo al collo del sistema globale.
Non è un’ipotesi remota. È uno scenario concreto e plausibile.
Il blocco causerebbe, in meno di 48 ore, una perdita secca di oltre 15 miliardi di dollari. Gli armatori già ora allontanano le navi. I premi assicurativi per i trasporti marittimi stanno salendo vertiginosamente. E mentre gas e petrolio impazziscono, il sistema economico globale inizia a tremare.
Tutto questo potrebbe scaturire da un solo errore. Da un attacco americano. Da una dichiarazione incendiaria. L’Iran, pur essendo un regime autoritario, ha una strategia ben chiara: trasformare la tensione in una minaccia economica. E su quel tavolo ha calato la carta del caos.
Nel collo di bottiglia più strategico del pianeta, Teheran ha piazzato la sua trappola. Non è Hollywood. Non è un film. È geopolitica. È una storia che ha precedenti noti: lo shock petrolifero del 1973, le guerre del Golfo. Con una differenza sostanziale: oggi, a rischiare, è anche chi si crede lontano dal fronte.
E se l’Iran lo facesse davvero?
Cosa accadrebbe se davvero lo Stretto di Hormuz venisse chiuso? La risposta è semplice: il mondo occidentale entrerebbe in una crisi di proporzioni globali.
Gli Stati Uniti?
Verrebbero trascinati in un conflitto di ampia portata. Si ritroverebbero con navi bloccate nel Golfo Persico, truppe esposte, alleanze instabili e nuove minacce su più fronti. La flotta americana diventerebbe un bersaglio mobile in uno scenario altamente esplosivo, mentre a Wall Street i mercati brucerebbero miliardi ogni minuto.
I costi stimati supererebbero i 10 miliardi di dollari al giorno solo per il blocco dei flussi energetici. A ciò si aggiungerebbero rincari sui beni primari, inflazione fuori controllo e potenziale instabilità interna. Il sistema economico statunitense ne uscirebbe scosso nel profondo.
E ogni nuovo missile lanciato diventerebbe un’arma di ritorsione indiretta. Perché il caos è, a tutti gli effetti, parte della strategia.
E Israele?
Israele, che è tra i principali attori nello scacchiere mediorientale, rischia di essere risucchiato in uno scenario ingestibile. È già circondato da forze ostili: Hezbollah a nord, Hamas a sud, Houthi nel Mar Rosso. Un’azione più energica da parte dell’Iran potrebbe innescare una spirale di conseguenze potenzialmente disastrose.
Missili dal Libano, droni esplosivi, cyberattacchi, colpi alle infrastrutture strategiche. E poi la paura di una frattura interna. Perché in Israele non tutti condividono la direzione bellica attuale, e una parte della popolazione è stremata da mesi di tensione.
Tel Aviv potrebbe reggere. Ma fino a quando? Anche il sofisticato sistema Iron Dome ha i suoi limiti. E quando le difese iniziano a cedere, nemmeno i bunker bastano più.
Chi vince?
Nessuno.
Perché questa non è una guerra di trincea. È una guerra nervosa, psicologica, commerciale. E chi decide di premere il grilletto rischia di vedere il proiettile tornare indietro.
Paolo Consiglio
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