Il capitalismo è entrato nei cervelli: l’individuo iperconnesso nutre l’illusione della libertà illimitata, in realtà è schiavo

(di Daniela Ranieri – ilfattoquotidiano.it) – A ogni femminicidio, da anni, scatta nei commentatori l’automatismo di motivare il delitto con la categoria del patriarcato.
Abbiamo dei dubbi che questo tipo di crimine sia da riferire in tutti i casi, anche in quelli che riguardano giovanissime persone, alla volontà di perpetuare un modello di società in cui gli individui di sesso maschile sono “capi famiglia” e “padri della stirpe”, come da definizione antropologica ed etimologica del termine “patriarcato”.
Le storie di femminicidi recenti hanno tutte una sceneggiatura di brutale e raggelante semplicità: la donna vuole chiudere la relazione sentimentale con un uomo, il quale allo smacco di sentirsi rifiutato oppone l’eliminazione fisica della persona che è causa della sua frustrazione.
Forse in questa strage quasi quotidiana il patriarcato non ha il peso che gli diamo. Sarebbe come sostenere che i giovani leggono pochi libri perché sono contro i caratteri a stampa di Gutenberg, o che non vanno a messa perché sono luterani o scismatici o nichilisti russi o comunisti.
Davvero si pensa che un ragazzo che uccide la sua compagna obbedisca al dettato culturale di ristabilire un modello di convivenza nato insieme alle prime civiltà agricole e sedentarie, tra la fine del Neolitico e l’inizio dell’età del Bronzo? Davvero non riusciamo a pensare ad altre motivazioni che non siano riferibili a un paradigma di convivenza sociale nato 6.000 anni fa, reso fulgido dall’avanzata della società borghese (vedi Il Gattopardo) e in fase di decadenza già con la sua crisi (I Buddenbrook), in cui la donna resta a casa ad accudire la prole e non ha accesso alle risorse finanziarie della famiglia, mentre l’uomo si prende cura del sostentamento economico e della tutela dei beni mobili e immobili del casato con la volontà unica di trasmettere l’eredità ai suoi figli?
Non si tratta piuttosto di una forma di narcisismo del tutto inedito, che poco riguarda la concezione del potere maschile in senso tradizionale, e molto invece lo smarrimento del soggetto di fronte a una realtà diversa rispetto alla sua immaginazione predatoria?
La categoria peraltro è talmente lasca da ricomprendere in sé tutte le forme di sopraffazione maschile. Il capo molesta la dipendente? Patriarcato. Il marito uccide la moglie che vuole lasciarlo? Patriarcato. Il ventenne ammazza la fidanzatina a sassate e ne nasconde il cadavere con freddezza, come ha visto nelle serie Tv? Patriarcato. Hollywood è piena di marpioni che usano il loro potere per scritturare attrici in cambio di favori sessuali? Patriarcato. Il relatore al convegno usa il maschile sovraesteso non salutando “tutti e tutte” e limitandosi al sempre più sospetto “tutti”? Patriarcato. Fischiare alle donne per strada? Manco a dirlo. Già il fatto che per fenomeni eterogenei si ricorra al movente della sopravvivenza di un impianto comunitario risalente all’Età della Pietra dovrebbe insospettire sulla sua precisione.
Il femminismo che si propone di combattere modelli vetusti di fronte a una società antropologicamente mutata si spunta le armi da solo. Occorre distinguere il patriarcato tuttora sopravvivente che modella i rapporti di forza in ambito lavorativo, posizionando i maschi ai livelli più alti della scala gerarchica e relegando le donne a ruoli subordinati – a patto di considerare che questa forma di dominio maschile resiste grazie al mancato rinnovamento della “struttura” marxianamente intesa e al persistere del gender gap, la disparità salariale tra maschi e femmine – dall’aggressività narcisistica che porta gli uomini ad annientare l’altra, e spesso sé stessi, a causa di una possessività morbosa e di una forma infantile di bisogno affettivo che avvicina l’omicidio più al nichilismo capriccioso che a un agire da cavernicoli o padri padroni.
Non è solo una questione linguistica (posto che la scelta di Meloni di farsi chiamare “il presidente” al fine di risultare più autorevole è chiaramente segno di mentalità maschilista); fossilizzarsi sul patriarcato nella lettura dei fenomeni criminali recenti non consente di comprendere i mutamenti intervenuti nella società con la rivoluzione digitale.
L’abuso
di social media e videogame spesso violenti presso le giovanissime generazioni ha introdotto pervasivamente nella società cosiddetta evoluta nuove configurazioni neuronali e quindi comportamentali che si riflettono negli schemi del vivere collettivo: sollecitazione dopaminica, rinforzo positivo, virtualizzazione dell’eros, frustrazione nel fallimento, rifiuto del game over, rilancio dell’azzardo, minimizzazione della violenza e della morte, logica amico-nemico, reificazione dell’umano.
Questo tipo di consumo, in cui l’individuo è convinto di esercitare un’azione e invece è reso passivo e lavora per il Capitale, è una potente forza sociale. Il capitalismo è entrato nei corpi, nei cervelli, nelle ghiandole degli utenti attraverso una soddisfazione pseudo-libidica. L’individuo iper-connesso nutre l’illusione della libertà illimitata mentre è schiavo di una macchina di produzione incessante di stimoli e contenuti; ha sviluppato ansia, depressione, autismo sociale (vedi il fenomeno, nato in Giappone e diffuso in tutto il mondo, degli hikikomori, adolescenti che si chiudono in casa davanti a uno schermo rifiutando il contatto sociale).
A complicare i rapporti tra uomo e donna concorre il consumo di pornografia online, che è un sotto-tipo di videogioco rinforzato da una scarica ormonale fondato sullo stereotipo della donna quale oggetto di piacere priva di volontà e individualità proprie. È una compravendita compulsiva della nostra più delicata civiltà personale (vedi Non farti fottere. Come il supermercato del porno online ti ruba fantasia, desiderio e dati personali, Lilli Gruber, Rizzoli), ridotta a uno schema di violenza primitiva spacciato per liberazione sessuale (la “de-sublimazione repressiva” di Marcuse).
In quasi tutti i recenti casi di femminicidio, i maschi erano dei narcisisti immaturi, a malapena sessualmente attivi, comunque ignari della sessualità come dimensione fondamentale dell’essere umano in relazione con l’altro. Quei maschi non volevano niente, se non soddisfare l’impulso del momento attraverso la superiore forza fisica. Molti dei loro coetanei non hanno una visione progettuale della vita (non favoriti in ciò dalla precarietà imposta alla loro generazione dal neoliberismo, che ha progressivamente eroso i diritti acquisiti con le lotte sindacali dai loro padri e nonni). Non sanno farsi carico dell’emotività altrui, una prassi impegnativa incompatibile con la frenesia consumistica. Vogliono ciò che viene loro negato dalla libera volontà altrui; vogliono infinite “vite”, a costo di pagare un prezzo, che sia il carcere o l’unica vita vera di cui dispongono.
La questione è politica: depauperare la Sanità pubblica, affamare le famiglie più povere, condannando i più fragili a giornate di noia e soddisfazione virtuale, rendere la scuola simile a un’azienda che deve fare profitti, come hanno fatto i governi di stampo neoliberista o “tecnico”, o all’alveo dei nuovi patrioti che nulla devono sapere dell’educazione sessuale, come vuole questo governo di destra, sono infezioni nella piaga.
Bisogna entrare nell’ottica della psico-politica e del capitalismo ghiandolare, altrimenti la nobile indignazione finirà per renderci impotenti.
Forse tirare in ballo il patriarcato nobilita il discorso, perché il patriarcato è una cosa seria, mentre i videogame e la pornografia online no; ma chi ci dice che in questo lasso di storia non siano le cause non serie a determinare il nostro destino?
Suggerimento: Prima di sfasciarci il cervello andando a caccia, senza armi idonee, delle cause del femminicidio, non sarebbe il caso di affidare a qualche storico o consimile uno studio per vedere, nelle varie epoche storiche, recenti e meno, quanto fosse sviluppata questa sorta di efferata condotta. Per esempio. Sembra che all’inizio degli anni 90 il numero dei femminicidi in Italia, si aggirasse annualmente intorno alle 30 unità. Una differenza notevole con i 115 – 120 femminicidi per anno attuali. E quanti erano i femminicidi negli anni 70?, negli anni 50? nella prima metà del 1900? Durante l’800. Ecco, così via fino a comprendere le varie epoche storiche.
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Credo che si sia anche abbassata l’età.
Ragazzini non “educati” al rifiuto, alla perdita.
Bambocci cresciuti a merendine, videogiochi e smartphone, che hanno taaanto sofferto per i due anni (!!!) di isolamento sociale…a cui i genitori non hanno mai detto un sano “NO”.
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Si quello che tu scrivi Anail è un aspetto importante relativamente alle cause del femminicidio. Anche Crepet è intervenuto su questo aspetto dei ragazzini non <<educati>> al rifiuto alla perdita affermando quanto segue.
Per Crepet i giovani d’oggi non tollerano la frustrazione
Il “problema enorme” evidenziato da Crepet nel sistema educativo italiano si lega ad un’altra criticità che, a suo dire, affligge gran parte dei giovani d’oggi: “la totale incapacità di tollerare la frustrazione“.
Questo aspetto, ha spiegato lo psichiatra, si manifesta in una serie di reazioni sproporzionate a eventi che sono all’ordine del giorno, come “l’esame andato male, l’appuntamento mancato, lo smartphone che s’inceppa, gli amici che non ti hanno avvisato per uscire, il brutto voto a scuola, un rimprovero sul posto di lavoro”.
Tale fragilità, a suo avviso, è il risultato di un modello educativo che ha abituato i ragazzi a una costante gratificazione e a un’assenza quasi totale di ‘no’. “Questi ragazzi sono stati tirati su con un miliardo di sì e imbottiti con qualsiasi forma di benessere, non solo materiale“, ha ammonito Crepet.
La sua critica rappresenta un messaggio diretto ai genitori e agli educatori, accusati di non fornire ai giovani gli strumenti per affrontare il ‘no’, che ha sottolineato essere fondamentale per la crescita. “Se uno a 13 anni va a fare la festa e vuole che ci sia la birra, qualcuno deve dirgli no, la birra no. Ma se non glielo dice nessuno, lui pensa di essere figo e invece è solo un cretino, perché quel no serve a lui e alla sua crescita. Ma quanti libri bisognerà scrivere perché la gente capisca questo?”, ha chiosato.
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La penso esattamente così.
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Credo che con questo articolo la Ranieri abbia posto un punto definitivo (o quasi) al dibattutissimo tema, con i crismi dell’autorevolezza e dell’eccellenza argomentativa.
Mi chiedo se la mia amica Anail se ne sia convinta.
Riguardo al contenuto, aggiungerei la controversa svolta operata dal mitico sessantotto che ha liberato gli istinti animali desideranti – non solo di libertà sessuali – di masse giovanili (fino ad allora represse) anche grazie al rivoluzionario (?) Marcuse che si era però limitato all’aspetto sociologico del fenomeno della liberazione sessuale. Proprio mentre il neoliberismo si accingeva INVECE alla produzione in quantità industriali di beni di consumo con cui invadere e pervadere, e nello stesso tempo così addomesticare, l’autentica domanda di rinnovamento della società emergente con le nuove generazioni. E’ stato il passaggio, ahinoi, dal capitalismo d’antan elitario al neocapitalismo che mirava a fagocitare il complesso degli aspetti della vita di ogni individuo giovane o no. Che tanto allarmava pessimisticamente Pasolini sulle sorti della società di massa ormai senza più le luminose lucciole della sua infanzia/adolescenza. Tra i risultati, oggi possiamo annoverare anche l’anomia del tipico ragazzo del nuovo millennio trovatosi in solitudine e senza sbocchi veramente innovativi. Il patriarcato, ormai morto e sepolto, non c’entra una ceppa. La partita che si gioca ha ben più ampi e inquietanti nonché inediti contorni e confini.
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