
(Stefano Rossi) – L’articolo del Prof. Michele Ainis, del 17 maggio scorso, dal titolo “C’è un Referendum e c’è pure un reato” che, secondo lui, avrebbero commesso il presidente del Senato, Ignazio La Russa, la presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni e alcuni ministri come Lollobrigida, Salvini, Tajani, quando hanno consigliato di non andare a votare ovvero, di andare al seggio e non ritirare le schede elettorali, meriterebbe un dibattito più approfondito.
Il professore cita solo una parte dell’art. 98, che non rende chiara la ratio della norma e, francamente, l’ho capito solo andandolo a leggere integralmente.
L’art. 98, del Decreto del Presidente della Repubblica, 30 marzo 1957, n. 361, così recita: “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 3000 a lire 20.000”.
Questo decreto riguarda le elezioni per la Camera dei Deputati. Come spiegato nell’articolo di Ainis, nel 1970 venne promulgata la Legge 25 maggio 1970, n. 352, sui Referendum e, all’art. 51, si richiama l’art. 98, di cui sopra, per la punizione penale per chi induce all’astensione.
Dal combinato disposto dei due articoli citati, il pubblico ufficiale che induce all’astensione sarebbe passibile di punizione penale. E non ci sono dubbi sul fatto che sono tutti incaricati di un pubblico servizio i presidenti del Senato, presidenti del Consiglio dei Ministri, ministri e sindaci.
Michele Ainis, inoltre, è costituzionalista, professore emerito di diritto pubblico. La sua osservazione è del tutto inedita, puntuale, di grande effetto mediatico (si fa per dire), che meriterebbe maggiore attenzione.
Ci provo con il massimo rispetto verso chi è profondo conoscitore della materia.
Intanto, il professore, anticipa l’argomento principe per confutare la sua tesi, scrivendo nell’articolo che, il diritto di manifestare il proprio pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, è fallace: “Ecco perché è altrettanto fallace la giustificazione che tira in ballo un principio costituzionale inderogabile: la libertà di manifestazione del pensiero. Non vale forse pure per chi occupa uno scranno? Sì e no. Quando parla il presidente della Repubblica non esercita una libertà, bensì un potere. Potere di esternazione, è questo il suo nome. E ogni potere incontra limiti stringenti, che chiamano in causa la responsabilità di chi ne venga investito”.
E qui c’è tutto il limite del suo ragionamento, non solo, ma anche l’errore in cui è incorso.
Ma perché si parla del presidente della Repubblica?
Nell’articolo, lui parla di presidente del Senato, presidente del Consiglio, ministri (Lollobrigida, Salvini, Tajani) ma non del presidente della Repubblica. Quindi, che c’entra il potere di esternazione? Potere che è riconosciuto proprio al Capo dello Stato e non ad altre cariche.
Se si vuole argomentare non bisogna spostare la mira altrove, altrimenti due sono le cose: si vuole sviare dal ragionamento per non finire in un vicolo cieco; si cerca un escamotage per spiegare una cosa che, però, pur giusta, non ha alcuna attinenza con il merito della discussione. In altre parole, la si vuol buttare in caciara.
Invero, proprio il diritto di cui all’art. 21 Cost., è oggi più che mai in auge, ampiamente riconosciuto anche a cariche e funzioni che, una volta, venivano escluse.
Solo per fare un esempio, l’art. 98 della Costituzione prevede limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”.
E’ noto che, per i militari, questo limite è venuto meno, non solo in forza di alcune sentenze del Consiglio di Stato, confermate dalla Cassazione ma, bensì, in forza di numerose norme sovranazionali che impongono una radicale revisione del diritto interno. Mi riferisco alle seguenti: art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; art. 12, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 20 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; art. 22, Patto internazionale sui diritti civili e politici; la sterminata giurisprudenza della Corte EDU, che riconoscono il diritto di manifestare il proprio pensiero nonostante i molti limiti di norme nazionali degli Stati membri.
Il limite è venuto meno per i militari e dovrebbe sussistere, invece, per i politici?
Ma come non riconoscere il sacrosanto diritto, per i vertici di un partito, di indicare la linea politica, nei confronti di una consultazione referendaria, su come esprimersi; almeno verso i propri elettori? Si, no, due si, due no, libertà di voto su uno o tutti i quesiti. E tra questi, anche quello di dire di non andare a votare proprio per evitare il raggiungimento del quorum.
E non si tratta solo di esercitare il diritto di cui all’art. 21, ma di svolgere democraticamente l’attività politica!
Quindi, se tutto questo è vero, nella figura del pubblico ufficiale di cui agli atti, 98 e 51, cit., non potranno mai esserci i politici nello svolgimento di una legittima attività politica, ma solo quei soggetti che hanno uno stretto contatto con lo svolgimento delle votazioni come il presidente di un seggio, un segretario o un rappresentante di lista o gli appartenenti alle forze dell’ordine presenti nei seggi elettorali.
Infine, il professore ci dovrà spiegare perché i reati non li ha visti quando, ad invitare gli italiani all’astensione, furono Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella, il card. Ruini, gli allora presidenti di Senato e Camera, Pera e Casini. La lista è lunga.
E qui mi fermo per rispetto.
Ricordo solo che, prof. Ainis, disse all’Assemblea dei 1000, a Roma, hotel Ergife, 17 giugno 2005: “È il tema dell’astensionismo «militante», degli appelli all’astensione, che hanno decretato la morte di questi referendum e probabilmente del referendum in sé e per sé. Ora, la scelta astensionista è un segno di debolezza e di prepotenza insieme … In questo senso è una scelta eversiva, anche se l’ordinamento normativo in astratto la consente”.
Allora lo consentiva, oggi, cosa è cambiato per il professore?
Bravo Stefano Rossi, hai spaccato il pelo in quattro, hai buttato la palla in tribuna ma resta il fatto che un politico che invita a non votare è un politico da quattro soldi.
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L’articolettista dice fesserie. L’articolo 98, comma 3, della Costituzione stabilisce che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per magistrati, militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Nessuna legge ha mai impedito ai militari o a tutti gli altri di essere iscritti a un partito mentre ci sono solo delle limitazioni per i ruoli e le attività che si possono svolgere. La legge che sanziona l’astensione è chiarissima e ogni volta che qualcuno la ricorda di colpo gli astensionisti si tacciono o sono costretti a inventare nuovi raggiri retorici (e pratici).
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