(Silvano Poli – lafionda.org) – “Che ha fatto la Juve ieri? Non pretenderai di fare la rivoluzione senza conoscere i risultati della Juventus?”. Secondo la leggenda questa fu la risposta di Palmiro Togliatti a Pietro Secchia in un grigio lunedì tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ’50. “Il Migliore” era un noto tifoso bianconero ed un appassionato di calcio. Di contro, il vicesegretario Secchia era un bolscevico di ferro, refrattario al panem et circenses della modernità e sempre a lavoro per la rivoluzione. Questo celebre scambio non è probabilmente mai avvenuto e può considerarsi una delle tante leggende che hanno abbellito i corridoi di Botteghe Oscure. Tuttavia, rivela bene il carattere dei due personaggi, ci dice molto del carattere nazionalpopolare del PCI e, soprattutto, ci ricorda del legame che in Italia intercorre tra calcio, politica e tessuto sociale. Si può allora tentare di usare il calcio come veicolo, come “gold proxy” (per usare il linguaggio dei ricercatori), per capire qualcosa di cosa è diventato il nostro Paese.

Non basta, infatti, il sollievo delle due reti alla Moldova per dimenticare l’immonda figura della nazionale maggiore contro la Norvegia. Un 3-0 che sanguina copioso la probabile mancata partecipazione dell’Italia alla prossima Coppa del Mondo. Se ciò avvenisse sarebbe il terzo insuccesso consecutivo: oltre una decade di fallimenti. Così in questi giorni il paese dei 59 milioni di CT si scontra e si consuma nelle discussioni e nelle accuse. È possibile non tirare in ballo l’allenatore e la sua disastrosa gestione? Certamente no. Senza entrare nei tecnicismi che competono ai giornali sportivi l’assenza di gioco e la fase difensiva della nostra nazionale hanno contribuito a ridefinire il senso della parola “vergognoso”. Stessa critiche e stesse affermazioni per i vertici della federazione del Giuoco Calcio che quell’allenatore l’ha scelto e sostenuto. Immediatamente, si sono pretese le teste di Spalletti e di Gravina: la prima è cascata nel giro di poche ore, mentre la seconda rimane sul collo grazie a pochi ed allentati punti di sutura.

Dopo l’indignazione – l’unica vera linfa vitale rimasta ai devitalizzati popoli del Vecchio Continente – è arrivato il tempo della riflessione. Un esercizio in disuso che solo la passione patriottica (mi si perdoni questa parolaccia) per la Nazionale riesce ancora a far emergere. Ed ecco, allora, emergere la natura complessa dei problemi, seppur nella maniera urlata tipica del Bar Sport. Il problema è, come visto, gestionale, ma, ad un livello più profondo, si afferma essere primariamente sportivo: mancano i “numeri 10”. Nel paese che fu di Baggio, Totti e Del Piero manca il talento, il saper giocare a calcio con stile. Allora il problema diventa atletico: “si costringono i ragazzi a diventare atleti, non calciatori”: vogliamo quattordicenni di 185cm, con il risultato che non sanno neppure stoppare la palla.  Ma non sono solo i ragazzi, aggiunge un altro, è un problema tattico: se tutti giocano con il 3-5-2 ti servono solo corridori, non calciatori. Il problema è infrastrutturale si afferma: nel calcio, come sempre nel nostro Paese, mancano i fondi, non ci sono le strutture. Ma il problema è anche societario: si pensa a vincere il campionato pulcini/juniores invece di formare campioni. E così all’infinito.

Aggregandomi al coro ritengo invece che il problema del calcio italiano non sia “il calcio”, ma l’Italia ed il suo sistema ideo-logico. Innanzitutto, cerchiamo di fare chiarezza su una delle parole più abusate dell’ultimo secolo. Per i Greci “l’idea” è l’unità base della teoria (theoria), che è la visione di oggetti veri e universali: “idea” significa “il visibile”, ciò che viene visto con gli occhi della mente (nous). Una logica è invece l’essenza esprimibile di una pratica o di un evento: incarna, cioè, le condizioni di esistenza e possibilità di fenomeni in un contesto spaziale-temporale e definisce «il tipo di dichiarazioni che facciamo su quei fenomeni»[1]. Ecco che l’ideologia è un fenomeno totalizzante, perché rappresenta ciò che riusciamo e possiamo esprimere sugli eventi e le pratiche che accadono nel nostro mondo. Da ormai mezzo secolo l’ideologia è chiamata neoliberismo e, nella sua variante italica, è la principale causa del tracollo calcistico e generale del Paese.

È sufficiente evocare i più ricorrenti luoghi comuni che dominano il nostro discorso pubblico per notare come si adattino perfettamente anche al calcio: si pensi alla produttività. Da oltre tre decenni, l’Italia è schiacciata da una spirale di compressione dei salari che non conosce eguali. La principale giustificazione che viene adotta è il mancato aumento della produttività. Se tralasciamo per un secondo il fatto che questa è una spudorata menzogna, diviene facile contestare che la produttività non aumenta incrementando le ore di lavoro, ma attraverso investimenti produttivi e trasformazione dei processi. Che si tratti di calcio o di industria, la classe dirigente italiana è quella che negli ultimi 25 anni ha investito meno in ricerca sviluppo ed ammodernamenti di tutta l’area Euro. In tutti i settori il neoliberismo italiano ha esacerbato le sue tendenze estrattive e di rendita per garantire posizioni di privilegio. Nel calcio come in ogni altro settore, il desiderio di chi gestisce è estrarre rendita, non ottenere risultati competendo: una logica in pieno accordo con quella dottrina economica neoliberale che è riuscita ad arrivare ad affermare che i monopoli, trionfo del rent seeking, sono un fattore positivo per l’economia.

Stesso discorso se chiamiamo in causa i meccanismi di selezione dei calciatori. È di poche settimane fa l’inchiesta del programma “Le Iene” che ha smascherato un sistema corrotto che affonda le sue radici nelle categorie minori e si diffonde fino ai campionati dei professionisti. In accordo con la più becera dinamica “para nobiliare” il privilegio empirico del contante si impone sull’ilare mistificazione che sono oggi il talento e il merito. Nei filmati viene mostrato come per diventare un calciatore professionista sia sufficiente pagare una lauta tangente al gate keeper di turno. Da sport nazionalpopolare, sogno di gioventù spesso costruito a suon di pallonate ad una saracinesca, i settori giovanili si sono trasformati nel dominio della versione in tuta acetata dei cd. fuffa guru che popolano il feed di Instagram. Merchandising, gadget, formazione della mentalità ecc.: nelle scuole calcio di “calcistico” non si insegna nulla. Le società oggi esistono più che altro per proporre costosi pacchetti e sessioni d’allenamento private, o anche accessi ad Academy che includono persino la cura del look dei preadolescenti. Il punto decisivo è sembrare uno sportivo, non diventarlo. Essere un calciatore è uno status da ostentare a suon di tatuaggi e presunzione da parte di giovani rampolli privi di talento ma pieni di soldi; un motivo di vanto per mamme annoiate nelle cene di gale o per fidanzate pseudo influencer nelle notti della movida.

D’altronde come non notare lo stesso meccanismo in ogni altro ambito della nostra società. I vertici di ogni azienda italiana con più di 50 dipendenti sono da decenni sliding doors dei soliti noti; l’arruolamento nell’accademia è un meccanismo di cooptazione per specifiche cerchie e gruppi sociali; l’editoria ed il giornalismo italiano sono storicamente una vicenda per famiglie, con padri e figli che fanno finta di discutere per alimentare una polemica che serve a vendere qualche copia; persino la Pubblica Amministrazione tende a mettere in soffitta il meccanismo rivedibile, ma teoricamente meritocratico, del concorso per far posto alla nomina diretta ed arbitraria dei suoi dirigenti. Non c’è pertugio del nostro Paese che non sia stato “piovrizzato” da questa logica perversa, questo stadio finale del capitalismo che è riuscito a depauperarci anche di quei pochi momenti di gioia collettiva che lo sport concede. Il calcio nazionale è un aggregatore sociale, per quanto a volte criticabile, che ha accompagnato eventi dirimenti della storia di questo Paese: dall’elezione del primo Presidente della Repubblica socialista, alle notti magiche successive alla fine del socialismo reale, fino al trionfo di Germania 2006. Rinunciarvi significa immolare uno dei pochissimi riti collettivi rimasti, forse l’ultimo riflesso sincero e buono di ciò che era il nazionalpopolare.

È indubbio che bisogna stare attenti a non sembrare dei semplici nostalgici, a non cadere nella retorica “una volta era tutto meglio”. Se da una parte queste dinamiche sono in atto da anni, rivelando solo ora i loro effetti perniciosi, non ci si può illudere che una volta il calcio ed il Paese fossero cosparsi di nettare ed ambrosia. Cionondimeno, sono i risultati stessi, nazionali e calcistici, a dirci che peggio di così non si era mai fatto. Allo stesso tempo non ci si deve far semplicemente abbattere dallo sconforto. Un noto luogo comune a cui tutti siamo stati esposti sbeffeggia la nostra presunta apoliticità affermando che “per far fare la rivoluzione agli italiani devi toglierli il calcio”. Forse ora, alla soglia della terza mancata qualificazione al mondiale, si può cominciare a rendersi conto che il calcio agli italiani l’hanno già tolto. Chissà che mostrare loro le pratiche e il volto dei responsabili non li spinga a fare qualche necessario e folle gesto… o almeno a cominciare a pensarci.


[1] L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Oxford, Blackwell, 1967, p. 91.