
(di Marco Di Salvo – glistatigenerali.com) – D’accordo, d’accordo. Lunedì andrò a votare con l’entusiasmo di chi va dal dentista. Andrò tra l’ora di pranzo e il termine ultimo delle 15. E lo farò, perché credo nella democrazia diretta, nonostante tutto e tutti, promotori e dissuasori.
Mi sono nutrito di campagne referendarie nei miei anni di formazione politica, dalla raccolta di firme, alla pulizia dei moduli, alla consegna in Cassazione. Raccolsi firme anche quando non potevo ancora votare, per i referendum sulla giustizia e ambientali del 1987.
Ma questi cinque referendum dell’8-9 giugno mi hanno fatto sentire come un critico musicale costretto ad ascoltare l’ennesimo talent show. Tecnicamente perfetti (almeno così ha stabilito, nella sua giurisprudenza altalenante, la Corte Costituzionale), giuridicamente ineccepibili, politicamente… svuotati. E non riesco a togliermi di dosso l’idea che i promotori avessero preso lo strumento più potente della democrazia (se usato in maniera corretta) e l’avessero usato per aggiustare il rubinetto che perde. Anche questo ha reso difficile il confronto sui temi, soprattutto quelli del lavoro.
Prendiamo l’art.18: non è difficile dire, a meno che non si sia promotori, che questo referendum è nato vecchio. O, meglio, che lo strumento abrogativo non può essere usato per questi temi in questo modo. Stiamo votando per tornare a una norma del 1970 per abrogare una riforma del 2015. Nel 2025. È come votare per reintrodurre la lira per protestare contro l’euro.
Non è che la questione non sia importante. È che arriva con dieci anni di ritardo, trasformata in un’operazione nostalgia invece che in una proposta per il futuro.
I quesiti sui contratti sono il trionfo della micro-ingegneria giuslavoristica. Causali, durata massima, numero di rinnovi. Roba non da democrazia diretta. Lavoro da Parlamento, se il Parlamento fosse in grado di fare il suo lavoro. Io che ho voluto leggere tutto, che so cos’è un contratto a termine e cosa significa “prima applicazione”, che ho letto anche le sentenze della Cassazione, quando vedo queste schede penso: “Ma davvero stiamo usando il referendum per questo?”
Il referendum è uno strumento di rottura, di scelta netta. Qui stiamo usando una mazza per infilare un chiodo. Funziona, ma non è elegante.
Il quarto e il quinto sarebbero i più “comunicabili”.
Prendiamo il quarto. Abrogazione delle norme sulla vigilanza in materia di sicurezza sul lavoro. Questo dovrebbe essere il quesito più facile: la sicurezza è sacra, tutti d’accordo, votiamo SÌ e torniamo a casa. Invece no. Anche qui si tratta di modifiche tecniche, di competenze tra enti, di procedure amministrative. Roba importante, per carità, ma che c’entra con la democrazia diretta?
È come se per protestare contro la guerra mondiale organizzassimo un referendum sulla divisa dei soldati.
L’ultimo, quello che parla della riduzione da dieci a cinque anni del periodo di residenza per la cittadinanza. Ecco, questo è un referendum vero. Chiaro, netto, ideologico. Da una parte chi pensa che dieci anni siano giusti, dall’altra chi li considera troppi. Scegli e vota.
Questo quesito mi ha fatto tornare l’entusiasmo di una volta. Finalmente una scelta politica vera, non un aggiustamento tecnico. Guarda caso, quello che è stato silenziato di più, il quesito che, nel complesso di una mancata comunicazione istituzionale, è stato relegato in fondo, quasi rinnegato anche dalla stessa CGIL che ne ha raccolto le firme.
Mentre penso a quando andare a votare, rifletto su quello che è successo al mio amato referendum. È diventato un arnese da battaglia politica quotidiana invece che uno strumento di scelta democratica straordinaria.
Una volta i referendum si facevano per le grandi questioni: divorzio sì o no, aborto sì o no, nucleare sì o no. Erano momenti di democrazia alta, occasioni per discutere del paese che volevamo.
Poi, all’inizio degli anni novanta, ci fu la svolta “elettorale”, svolta concessa da una Corte Costituzionale che permise di emendare le leggi e non solo di cancellarle nella sua interezza. Da quel momento in poi quasi tutti i referendum si fanno per correggere gli errori del legislatore, per fare opposizione con altri mezzi, per mandare messaggi al governo. Tutto legittimo, tutto costituzionale. Ma anche tutto tremendamente noioso.
Questi cinque quesiti soffrono della sindrome del referendum tecnico: sono giusti, necessari, ma non emozionano. Sono come l’ennesimo disco dei Rolling Stones ottantenni: ben fatto, ineccepibile, ma non ti cambia la vita.
Il referendum dovrebbe essere il momento in cui il popolo prende in mano il destino del paese. Questi sembrano più un esame di diritto del lavoro a domande multiple.
L’ironia è che io, che conosco tutto sui referendum, che ho seguito la raccolta firme, che ho partecipato ai dibattiti, sarò quello che esce dal seggio meno convinto.
Forse è colpa mia, forse ho idealizzato troppo questo strumento. Forse pretendo troppo dalla democrazia diretta. Ma quando vedo persone che votano SÌ a tutto perché “tanto il governo deve cadere” o NO a tutto perché “non si cambia niente”, mi viene da pensare che abbiamo banalizzato qualcosa di prezioso.
Il referendum è come il vinile: bellissimo, ma va usato per la musica giusta. Non puoi mettere la trap su un giradischi vintage e aspettarti che funzioni. E comunque, anche con la musica giusta, non ti restituirà mai i tuoi vent’anni.
Questi referendum del 2025 sono (forse) tecnicamente perfetti ma emotivamente vuoti. Servono a correggere errori del passato, non a immaginare il futuro. Sono chirurgia, non rivoluzione.
Voterò SÌ a tutto, perché comunque rappresentano un miglioramento rispetto all’esistente. Ma lo farò senza entusiasmo, come si fa la spesa al supermercato: necessario, ma non esaltante.
Il referendum rimane uno strumento magnifico della democrazia. Ma forse dovremmo usarlo con più parsimonia e più ambizione. Meno micro-ingegneria giuridica, più grandi scelte di civiltà.
Oppure dovremmo accettare che anche i referendum sono diventati normali, quotidiani, tecnici. Parte del gioco democratico ordinario invece che momenti straordinari di partecipazione popolare. E, visto il livello del gioco democratico ordinario del nostro paese, la crisi del referendum è solo un’altra faccia della crisi generale del paese.
Ma non mi convincerete mai, che questa trasformazione è un segno di maturità democratica, quando persino gli strumenti più nobili diventano routine.
A me la routine non è mai piaciuta. Preferivo quando i referendum facevano paura al potere.
tanto dire per niente dire…in svizzera i referendum e’ il pane politico dei cittadini, in italia e’ancora un esempio di democrazia nascosta, che puo’ funzionare se uno ci prova, per quanto riguarda i temi, sono i lavoratori che li hanno scelti, il referendum e’ loro “signor professore” che sicuramente sfida il governo attuale, aspetto gli esiti, io intanto voto si….mi piace si, meglio che il no.
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Chi è incerto o addirittura svogliato dovrebbe convincersi ad andare al seggio a votare per almeno due motivi:
1- per il trattamento riservato all’ evento referendario in questione da parte dell’ asse politico mediatico. E questo in generale.
2- per il trattamento riservato all’ evento referendario in questione da parte di pezzi importanti politico mediatici che, in teoria, dovrebbero appoggiarne le finalità senza ambiguità dialettico-propagandistiche. E questo in particolare.
La esistenza e il mantenimento di una marcata zona grigia su certi temi, luogo frequentato da soggetti di varia natura e che potrebbero essere organici in una parte o nell’ altra senza creare grandi sorprese, è il motivo principale della disaffezione al voto: non esistono più differenze nette di vedute, ma una miriade di distinguo (vado ma non ritiro le schede, vado ma ritiro solo due schede, vado perché è un mio diritto ma cambierà poco ecc ecc).
Io vado e voterò SÌ. Punto.
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Caro tizio che hai scritto l’articolo, io invece dopo 10 anni di lavoro precario con il Jobs act ci andrò bello motivato a votare. Sia mai che un giorno chi mi assume debba giustificarsi per darmi un contratto a tempo. Sia mai che, se mi licenziano con un pretesto e un giudice mi dà ragione, si trovino nella condizione di restituirmi quello che mi han tolto, cioè il lavoro, e non possano risolvere tutto con una mancetta. Sia mai che non debba rischiare la vita ogni fottuto giorno per avere uno stipendio perché lavoro in una cooperativa in subappalto del subappalto che, in quanto tale, non ha i soldi per pagare le pastiglie dei freni dei furgoni che mi fa guidare. Caro tizio che hai scritto l’articolo, te lo dico col cuore: vai a fare in c…
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basta andare a votare,è il terrore del governo ,andiamo solo per riprendere il potere del voto e a ognuno la sua scelta
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Articolo decisamente pessimo
“Prendiamo l’art.18: non è difficile dire, a meno che non si sia promotori, che questo referendum è nato vecchio. O, meglio, che lo strumento abrogativo non può essere usato per questi temi in questo modo. Stiamo votando per tornare a una norma del 1970 per abrogare una riforma del 2015. Nel 2025. È come votare per reintrodurre la lira per protestare contro l’euro.“
No, Stiamo votando per tornare ad una norma del 2012, non del 1970 ; l’esempio lira/euro è decisamente fuori luogo perché lira ed euro sono due valute teoricamente intercambiabili mentre la norma prevede di dare maggiori tutele a coloro i quali queste sono state ridotte; detta diversamente lira ed euro sono sostituibili tra loro, almeno in astratto; tutele di differente livello no.
Quanto al suo ritardo è in parte condivisibile, ma dire che il referendum sia inutile no; semmai è illusorio pensare che sia un punto di arrivo, se lo fosse sarebbe l’ennesima pugnalata alle spalle dei lavoratori.
Ma potrebbe essere un punto di partenza; se visto in quest’ottica allora può avere un senso.
I quesiti sui contratti sono il trionfo della micro-ingegneria giuslavoristica. Causali, durata massima, numero di rinnovi. Roba non da democrazia diretta. Lavoro da Parlamento, se il Parlamento fosse in grado di fare il suo lavoro. Io che ho voluto leggere tutto, che so cos’è un contratto a termine e cosa significa “prima applicazione”, che ho letto anche le sentenze della Cassazione, quando vedo queste schede penso: “Ma davvero stiamo usando il referendum per questo?”
Questo è un punto nodale; è vero che nel corso degli anni la disciplina giuslavoristica sulle norme dei contratti ha subito modifiche per legge ordinaria, è del tutto logico quindi chiedersi se sia corretto o meno usare l’istituto del referendum per modificare leggi le cui modifiche avvengono per via ordinaria; ma sfugge la storia di queste modifiche; queste modifiche sono state introdotte ed abrogate diverse volte; l’uso dello strumento di democrazia diretta serve a dire in modo inequivocabile che è ora di piantarla di andare avanti e indietro a seconda di chi governa; l’indirizzo deve essere chiaro; detta diversamente questo quesito serve a misurare la distanza esistente tra chi governa e chi lavora.
Prendiamo il quarto. Abrogazione delle norme sulla vigilanza in materia di sicurezza sul lavoro.(???????????????????????????????????????, che kazzo stai a dì) Questo dovrebbe essere il quesito più facile: la sicurezza è sacra, tutti d’accordo, votiamo SÌ e torniamo a casa. Invece no. Anche qui si tratta di modifiche tecniche, di competenze tra enti, di procedure amministrative. Roba importante, per carità, ma che c’entra con la democrazia diretta?
Il quarto quesito prevede l’introduzione di della norma di solidarietà tra committente ed appaltatore e serve a ridurre, se correttamente applicata e con maggiori controlli, il numero di incidenti e di morti sul lavoro.
La legge tende a sfruttare il potere contrattuale che il committente ha sull’appaltatore per fargli pressione affinché anche quest’ultimo osservi le norme di sicurezza sul lavoro.
Non sono modifiche tecniche o temi di competenza tra enti; qui gli unici “enti” competenti sono la magistratura, l’INAIL e le agenzie di pompe funebri; oltre ai due soggetti di cui sopra.
Quanto al fatto che i referendum vadano usati per scopi più alti, chi decide l’altezza cui porre l’asticella?
La realtà dice che questi referendum non avrebbero dovuto farsi non perché siano sbagliati in se, ma perché sono sbagliate quelle leggi che hanno portato a farlo ed i cui risultati sono evidenti; siccome queste leggi non è mai stato possibile abrogarle per via ordinaria allora dopo tanti anni, dopo tanti incidenti e morti sul lavoro, forse è la volta buona di fare qualcosa.
In caso di vittoria dei si è legittimo aspettarsi cambiamenti epocali? NO
Questi referendum sostanzialmente cambiano poco, molto poco, eccetto il quesito sulla cittadinanza, ma servono a dare un indirizzo a far capire quale sarebbe la strada da percorrere per tentare di piegare quella maledetta curva demografica,
Che questi referendum non siano determinanti per il futuro è vero, servono azioni di portata decisamente maggiore; ma forse la pretesa di rappresentare una luce in fondo al tunnel possono averla.
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