(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – Il 29 maggio 2025, nella gotica e “venerabile” sala del trono di Aquisgrana, là dove un tempo si incoronavano gli imperatori del Sacro Romano Impero, l’Unione Europea ha celebrato un altro dei suoi paradossi rituali: il conferimento del Premio Carlo Magno per la pace a Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea. A prescindere dall’ironia involontaria che un simile riconoscimento porta con sé, ciò che colpisce è la distanza siderale tra la retorica ufficiale e la realtà delle scelte politiche che l’Unione Europea ha compiuto negli ultimi anni sotto la sua guida.

Il premio – ufficialmente pensato per onorare “l’unità, la pace e la cooperazione tra i popoli d’Europa” – è stato assegnato a una figura centrale nella militarizzazione della UE, nella sua subalternità agli Stati Uniti e nell’attiva complicità nella gestione della guerra in Ucraina. Perché, a dispetto delle cerimonie e delle lodi del comitato organizzatore, il mandato di von der Leyen è stato segnato da tutt’altro che un’iniziativa diplomatica di distensione: dalla corsa agli armamenti europei al supporto senza condizioni a Zelensky, dal sostegno alle sanzioni contro la Russia fino alla retorica bellicista a Bruxelles, tutto nel suo operato parla di escalation e divisione, non di pace.

Quando il Premio Carlo Magno diventa un’arma retorica

Fin dalla sua fondazione nel 1950, il Premio Carlo Magno è servito da specchio cerimoniale per riflettere – o meglio, costruire – l’immagine dell’Europa come soggetto morale. Eppure, negli ultimi anni, i destinatari del premio sembrano suggerire il contrario. Da Jean-Claude Juncker ad Angela Merkel, da Donald Tusk a Emmanuel Macron, fino all’incredibile assegnazione a Papa Francesco (2016), il premio è diventato un esercizio di legittimazione reciproca all’interno di una classe dirigente sempre più autoreferenziale.

Nel 2023, era toccato addirittura a Volodymyr Zelensky riceverlo. E oggi, come in una perfetta messinscena simbolica, egli ritorna ad Aquisgrana accanto a Ursula von der Leyen, come testimonial vivente dell’“unità” europea sotto le bombe.

A sancire il tono surreale della cerimonia di quest’anno è il contesto: blindatissimo, militarizzato, con le forze di sicurezza in massima allerta a causa delle recenti aggressioni armate nelle città tedesche. Una pace, quella celebrata, che ha bisogno di cordoni di polizia per esistere, e che sembra paradossalmente più fragile che mai.

La pace secondo Bruxelles: difendere la guerra, reprimere il dissenso

L’ironia più amara, però, è nel messaggio politico che questa scelta sottende. Premiare von der Leyen per la pace significa consacrare come “pacifiche” le strategie di deterrenza, riarmo, guerra per procura e censura che hanno caratterizzato la sua leadership. È un messaggio sinistro: la pace non è più un processo da costruire, ma un’etichetta da appiccicare su progetti di potere. La stessa Commissione che ha promosso la censura digitale, che ha perseguito il dissenso interno e che ha avallato misure draconiane sotto l’emergenza sanitaria, si erge oggi a garante della stabilità e dell’ordine. Ma a quale prezzo?

Mentre le élite si autogratificano, il tessuto sociale europeo si sfilaccia: aumento della povertà energetica, disgregazione delle classi medie, collasso dei servizi pubblici e una gioventù sempre più distante dalle narrazioni ufficiali. È questa la vera crisi dell’Unione Europea: la rottura tra il linguaggio istituzionale e l’esperienza quotidiana dei cittadini.

Ursula von der Leyen: costruttrice di unità o catalizzatrice del declino?

Alla fine, la domanda sorge spontanea: quale “unità europea” ha realmente costruito Ursula von der Leyen? Quella di un’Europa asservita all’atlantismo strategico, incapace di parlare con una voce autonoma nel contesto internazionale? O quella di un’Europa che reprime le proprie contraddizioni interne dietro la maschera di una pace astratta?

Ulrike Reisner, nell’articolo originale, pone questa domanda con amara ironia. Ma il sottotesto è serio. Non è più tempo di accontentarsi delle apparenze. La retorica premiale non può sostituire la verità politica. Se von der Leyen rappresenta la pace, allora è legittimo chiedersi che cosa sia diventata la guerra.